Il Villaggio operaio di Villa Crespi, omaggio al genio italiano
Il Villaggio operaio di Villa Crespi,
omaggio al genio italiano
Sogno ottocentesco
di un imprenditore
“illuminato”
che vive nel presente
Di Dora Ravanelli
“Tempi moderni”. Tempi con gli occhi e la mente proiettati sul futuro. Forse megalomani anche un po’, ma generosi sugli altri, aperti sul mondo. Correva l’anno 1876 sul territorio bergamasco costeggiato dal fiume Adda, oggi l’uscita dell’autostrada Serenissima di Capriate San Gervasio (a mezza strada tra Milano e Bergamo). La rivoluzione industriale inglese, che aveva stravolto i metodi di produzione utilizzando nuove forze motrici e, di conseguenza, inediti macchinari, invadeva l’Europa. Soprattutto su certi settori, come la filatura, la modernità si affacciava prepotente. Prenderla al volo o no determinava il successo o meno di un’impresa. E la famiglia Crespi, cotonieri in Busto Arsizio, se lo prese tutto, questo successo. Di più. Andò oltre con “pensieri e parole”, parole che nel mondo concretissimo di quello che oggi (non a caso con un termine anglosassone) chiamiamo “business”, si traducono nei fatti. E qui entra il genio affabulatorio, immaginifico e concreto (questi aggettivi sono contraddittori, ma, in questo caso, rimano tra loro) di Cristoforo Benigno Crespi, il creatore e fondatore del Villaggio operaio Crespi d’Adda, esempio assoluto di imprenditoria “illuminata”, oggi visibile e visitabile nella sua integrità e vitalità, là dove era nell’Ottocento, affacciato sull’Adda. E anche nella sua bellezza, perché “le cose utili possono e devono essere anche belle”, suggeriva il pensiero più raffinato della borghesia ottocentesca.
L’idea su cui ruota tutto è: io, imprenditore, mi prendo cura di voi – che lavorate per me e determinate il mio successo o il mio fallimento – dalla “culla alla bara”. Vi regalo benessere, privilegi come la casa, la scuola per i vostri figli, l’ospedale con apparecchi diagnostici all’avanguardia, un medico dedicato solo a voi dipendenti (dall’operaio al dirigente), i bagni pubblici con acqua calda, i lavatoi per i panni (ad alleviare la fatica delle donne), piscina e trampolino per i tuffi (nel 1878!), lo spaccio alimentare, il cinema e il teatro, la banda musicale, il dopolavoro per il tempo libero (solo per i dipendenti maschi, s’intende, e vietato bere oltre il secondo bicchiere di vino), la pineta, la chiesa, il cimitero (spese funerarie a carico della proprietà)… tutto, ma proprio tutto, per agevolarvi la vita (vita durissima di contadini, prima). Il corrispettivo? Voi diventate “famiglia”, date tutto, dalla fedeltà ai muscoli. “Do ut des”, ma, nell’800, che idea, che impegno, che realtà straordinarie!
Eccolo, il Villaggio operaio di Crespi d’Adda – il cui cotonificio fu inaugurato due anni dopo, nel 1878 – , e che dal 1995 è Patrimonio dell’Umanità Unesco. Oggi è al secondo posto tra i siti industriali più visitati in Italia. Nulla di “taroccato”. Tutto vive quotidianamente non a uso dei visitatori, ma perché il borgo è vivissimo. Non è un caso, ma il frutto dell’impegno dell’Associazione Crespi d’Adda (www.crespidadda.it) che raggruppa uomini di passione e cultura (moltissimi i giovani), impegnati da anni nella “resurrezione” del villaggio e nella sua inesauribile fonte d’insegnamento e nuove idee, capaci di generare valore e attrattività per tutto il territorio. Tra le iniziative culturali in corso legate all’universo del lavoro (per tutto novembre e fino al 19 dicembre) e nell’ambito del Festival Produzioni Ininterrotte (www.produzioniininterrotte.it): i Tour Letterari, che coniugano letteratura e visite guidate – anche in collaborazione con altre realtà pubbliche e private – per scoprire luoghi di archeologia industriale raccontati in romanzi e saggi, e spesso inaccessibili al pubblico (www.tourletterari.it).
Si entra nel villaggio con naturalezza (il passato è presente vivissimo in 2 km di passeggiata), meglio se accompagnati da una guida (tel. 02.90939988) per gustare appieno il concentrato di eccellenze qui espresse. La strada principale è l’asse viario che separa il nucleo abitato dal lato fiume e dal canale con la centrale idroelettrica del 1909 (perfettamente in attività) e con l’originario ingresso in fabbrica, a due rampe di scale. Alla vista s’impongono tre strutture che formano un rettangolo, un tempo alloggio provvisorio per gli operai, tutti ex-contadini, tranne i dirigenti. Oggi sono appartamenti privati con esercizi pubblici a livello strada. Sul lato opposto della via, scorre la vita quotidiana. Di qualità e bene arredato con charme, ricreando l’atmosfera di un tempo, “Al Dopolavoro” (tel. 348.1152700), bar, pizzeria, ma soprattutto ristorante che nel menu stagionale presenta sempre almeno un piatto di tradizione locale come i casoncelli con pancetta croccante e scaglie di grana tra i primi, la polenta con manzo all’olio tra i secondi, una squisita torta di mele (prezzo medio: 45 euro). A fianco, un pregevole lavatoio in mattoni rossi e archi, lasciato volutamente ai capricci del tempo. Alzando lo sguardo, un poggio nel verde con due villette: del sacerdote e del medico, in posizione dominante a guardia e protezione dell’anima e del corpo degli abitanti.
Si snodano, poi, fianco a fianco, la chiesa quadrata con cupola ottagonale (su modello di quella di Busto Arsizio, città natale di Crespi) e l’ex scuola per i figli dei dipendenti (istruzione obbligatoria, qui, fino agli 11 anni contro i 9 stabiliti per legge!), ora museo partecipato: due ambienti nel buio, piccoli, curati, una vetrina illuminata con oggetti di un tempo ancora vivo. Due anche gli schermi, su cui scorrono video differenti. Curioso il secondo, in cui si recita e si dà vita in poche battute ai personaggi-chiave del passato: il medico, il cappellano, l’operaio, la maestra, il piccolo tessitore… Il museo è anche sede di incontri a tema, da discutere e realizzare. Contigui, gli ambienti-laboratorio destinati alle scolaresche. All’ingresso dell’edificio, una cardatrice ottocentesca in legno e ghisa dell’azienda inglese Platt Brothers. Per i visitatori è il benvenuto e una specie di promemoria dei primati del villaggio: la prima produzione cotoniera mossa da centrale idroelettrica, il primo trenino interurbano con locomotiva a vapore a trazione meccanica (1878) chiamato “El Gamba de Legn”, nel 1891 i mai visti abbattitori di sostanze dannose alla salute in fabbrica, l’inedita linea telefonica che collegava il borgo alla casa milanese di Crespi (poi trasferitosi qui), lo sfavillante sistema d’illuminazione che dava luce a tutto il borgo in contemporanea premendo un unico pulsante (a Milano non era stato ancora applicato), gli unici telai che negli Anni Venti tessevano il tessuto Jacquard, un quarto dei clienti di provenienza internazionale …
Alle spalle si snoda il villaggio, su pianta rigorosamente geometrica con 55 case per gli operai rigorosamente identiche tra loro (due piani con finestre, giardino-orto su 4 lati, quadrate, intonacate di bianco oggi), con nomi di strade che evocano i “grandi” italiani in più prospettive: Manzoni, Mazzini, Garibaldi, Donizetti … ma anche luoghi di gloria nazionale come Fiume. In più, 4 le ville per gli impiegati cui si aggiungono le 9 per i dirigenti – con alberi, tra il verde privato, ad alto fusto – e più articolate, più belle, più alte, con fregi, a indicare – che piaccia o no – una separazione di mansioni e di classe. Nel mezzo secolo di vita del Villaggio Crespi, così come concepito dal suo fondatore e poi proseguito dal figlio Silvio, i numeri, come già visto, sono importanti: 80.000 mq coperti solo per l’area su cui sorge il cotonificio – delimitato da muri in mattoncini con decorazioni in cotto a 8 punte; 70.000 fusi per tessere; 4.000 operai tra reparti di tessitura, di cardatura e tintura; la ciminiera, alta 70 m, anch’essa in mattoni rossi, che esibiva – ed esibisce – un orologio a scandire il prezioso tempo del lavoro e quello della vita. Finì di indicare le ore nel 2003, quando la fabbrica chiuse per sempre i suoi regali cancelli, guardati a vista da due eleganti palazzine con gli uffici dirigenziali. I periodi storici più difficili furono quelli del Ventennio e del Dopoguerra. Anche allora, però, il Cotonificio Crespi si fregiò di un primato: la prima fabbrica tessile italiana a lavorare il denim, il tessuto jeans. E poi anni di depredazioni e di abbandono fino a diventare, per precisa volontà di alcuni “illuminati” (il termine che si rincorre è sempre il medesimo), Patrimonio Unesco. Ora con la sua nuova vita (300 circa i residenti-proprietari, molti i discendenti degli operai di un tempo), si riprende la gloria passata, rendendo omaggio agli uomini “che furono” nell’ordinato cimitero cittadino, tombe-steli equidistanti su prati verdi. Domina un capolavoro in stile neogotico: il mausoleo della – e per – la famiglia Crespi.
Gli risponde dall’altra parte del villaggio – quella lambita dal fiume Adda, fiume canterino, sponde verdi, alberi fronzuti, l’attiguo Canale artificiale Crespi – la torre mossa e ardita della residenza Crespi (in vendita): un castello in stile neogotico austero e fantastico insieme (dentro, un immenso atrio centrale e 44 ambienti), che sembra uscire da un film disneyano, ma senza connotazioni arcigne o paurose. Fuori, un parco, silenzio, nessun rumore a esclusione di quello provocato dalla caduta dell’acqua sfruttata dalla pluricentenaria centrale idroelettrica. Una potenza di cui si usufruisce ancora oggi, a seconda della portata d’acqua del fiume, cioè mediamente 6 mesi su 12).E’ visitabile all’interno: grandi macchinari-marchingegni in ghisa, ruote giganti che ricordano quelle del film “Tempi moderni” con Charlot, scale per la manutenzione e controllo degli ingranaggi, pulpito rialzato per il comando dell’impianto in “boiserie” e vetro smerigliato. Sembra il perfetto setting per un giallo di Agata Christie, ma anche per un’odierna pubblicità di successo. E’ sempre il passato possente che non invecchia, si ricicla, diventa presente. La facciata? Quella di una cattedrale che, al posto dei rosoni laterali, ha due ventilatori incassati in nicchie. E poi il materiale utilizzato: il “ceppo” dell’Adda, un miscuglio di sabbia, ghiaia e altre materiali pressati dall’acqua, quella del fiume e basta. Ottimo per costruzioni che durano ni secoli.
Immergetevi in questa realtà immaginifica e concreta insieme. E’ vivere un momento di orgoglio italiano, che non ha alcuna colorazione politica. Semplicemente “è”. Ed “è” ancora. Andate, se possibile, in un giorno col cielo azzurro. Il resto (tanto) non ve lo raccontiamo. Scopritelo voi. Sarà, comunque, una “giornata particolare”, di quelle che restano. (Per informazioni ulteriori: www.crespidadda.it)