Italia, anatomia di un delitto
[photopress:crimescene_1.jpg,full,centered]
L’Italia sta morendo. Lo dicono i numeri. È come la vittima di un delitto, abbandonata sul selciato in una strada secondaria e buia dove i passanti, gli altri Paesi di Eurolandia e del G8, fanno finta di non vedere. Ma tra loro si danno di gomito con aria nauseata. «Ma guarda che roba! Non si può più andare in giro! Che tempi!». Non c’è nessun buon samaritano. Anzi, fra di loro si nasconde colui che l’ha prostrata. O comunque il mandante dell’agguato a base di austerity che l’ha lasciata tramortita.
Come se fossimo in un giallo, facciamo finta di essere detective della Special Victims Unit e assieme ai medici legali (e agli psicologi) cerchiamo di capire dalle ferite chi può averle causato tanta sofferenza senza provare il minimo rimorso.
[photopress:pil.JPG,full,centered]
Questo è il pil italiano degli ultimi 12 anni. Praticamente una parabola. Lasciate perdere il fatto che nel 2012 sia calato del 2,4%, è solo l’ultima stilettata. Praticamente dall’inizio della crisi, cinque anni fa, siamo tornati al punto di partenza, cioè al 2000. Casualmente, dal terzo trimestre 2011 – cioè dall’avvento del governo Monti – quel pur modesto recupero di salute che c’era stato nell’anno precedente, è stato compromesso da un’overdose di tasse, licenziamenti, chiusure di aziende, spread e credit crunch.
[photopress:output2.JPG,full,centered]
Ma cosa ha ridotto la vittima in fin di vita? Che cosa ha compromesso il suo organismo? È stato solo un fenomeno di violenza oppure le è stato inoculato anche un virus, quello più pericoloso, quello della decrescita? Osserviamo un’altra radiografia, quella della produzione industriale. In un solo anno è stato registrato un crollo senza precedenti. Nel 2012 è arretrata del 6,7% tornando ai livelli del 1990. Nei primi due mesi del 2013 è stato perso un altro 3,7%. Dov’è che l’emorragia sta devastando le funzioni vitali? Nel comparto dei mezzi di trasporto, della metallurgia e della lavorazione dei prodotti petroliferi. Ma anche la fabbricazione di macchinari e di beni strumentali è in pericoloso arretramento. Da oltre un anno e mezzo ogni mese la produzione industriale italiana perde un pezzo. ecco, un po’ alla volta si sta smontando il tessuto connettivo di un Paese, i suoi gangli vitali.
E mentre sulla pelle senti il dolore dei pugni, gli squarci delle ferite, al tempo stesso il tuo cuore e i tuoi polmoni sembrano volersi fermare. Il sangue si coagula.
Quindi non vi deve stupire che solo lunedì abbiano portato i libri contabili in tribunale 58 aziende. I dati Cerved dicono che nel 2012 si sono arrese 12.442 imprese (più di mille al mese, circa 34 ogni giorno). Un dato in aumento del 2,3% sul 2011 e addirittura del 32% rispetto al 2009, quando il pil italiano aveva subito un brusco arretramento a causa della crisi dei mutui subprime importata dagli Stati Uniti.
Però, è troppo facile parlare di crisi. «C’è la crisi, tutti soffrono la crisi, non siamo solo noi a starci dentro». A febbraio in Francia la produzione industriale è cresciuta dello 0,7%, in Germania dello 0,5%. Non tutti i presenti sulla scena del crimine sono innocenti allo stesso modo.
[photopress:chomage.JPG,full,centered]
Ma un’indagine non sarebbe tale se lasciasse in sospeso anche i risvolti interiori, le motivazioni psicologiche che possono aver portato la vittima a infilarsi in quella situazione di pericolo. E, soprattutto, perché non sia riuscita, non abbia potuto (o voluto) tirarsene fuori.
Quello che vedete è il dato più recente sulla disoccupazione. L‘11,6% della forza lavoro non ha un impiego. Sono 3 milioni di persone. In un anno sono aumentate di 400.000 mila unità. Sono un esercito espulso dal processo produttivo. Sono l’altra faccia del calo della produzione industriale.
Ma tanto l’impiegato quanto l’imprenditore sono sulla stessa barca. Si pongono sempre le stesse domande. Che con la stessa sorda indifferenza non ricevono una risposta. «Perché son condannato a questa vita? Che cosa ho fatto di male per meritarlo? Quali colpe ho?». Ecco che cosa ha portato la nostra vittima-Italia su quella strada buia della crisi dove è stata aggredita con violenza. Quel senso di inadeguatezza e di nausea che rende più vulnerabili.
Nel 2012 i licenztiamenti hanno superato quota un milione (1.027.462), con un aumento del 13,9% rispetto al 2011 (quando sono stati 901.796). Il ministero del Lavoro non mente: nel solo ultimo trimestre del’anno scorso sono state licenziate 329.259 persone, con un aumento del 15,1% sullo stesso periodo 2011.
Ma quando sei più debole, quando le tasche sono vuote, anche l’ultimo allibratore si rifiuta di piazzare quella che potrebbe essere la tua scommessa vincente. E non lo può fare perché il banco rischia di saltare. A febbraio i prestiti al settore privato hanno registrato un calo dell’1,3% su base annua. I dati della Banca d’Italia non lasciano scampo: i prestiti alle famiglie sono scesi dello 0,7%, mentre quelli alle società non finanziarie sono diminuiti del 2,6%. Certo, le banche italiane sono sedute su oltre 125 miliardi di crediti andati in sofferenza perché l’imprenditore se non vende le proprietà non ce la fa a onorare gli impegni, perché con un solo stipendio in famiglia pagare il mutuo è più difficile. Forse, se le banche non si fossero riempite con 351 miliardi di titoli di Stato italiani e avessero diversificato un po’ di più, magari qualche altro finanziamento avrebbe potuto essere concesso. Ma se le nostre banche non avessero comprato i Btp in misura tripla all’intervento della Bce, che ne sarebbe stato dello spread con il Bund tedesco.
È come un cane che si morde la coda. È come la legge di Murphy: se le cose possono peggiorare, lo faranno. Il reddito disponibile per nucleo famigliare in valori correnti è diminuito nel 2012 del 2,1%. Tenendo conto dell’inflazione, il potere di acquisto delle famiglie consumatrici è calato del 4,8%. Nel solo quarto trimestre, quest’ultimo dato è precipitato del 5,4% nei confronti dello stesso periodo del 2011. Non si produce, non si lavora, non si guadagna, non si consuma E poi il circolo vizioso riprende e ogni volta sembra di essere scesi più in fondo. Perché la fine di questo inferno non esiste. La fine di questo inferno non è la coppia di suicidi che decide di farla finita perché non riuscire a pagare l’affitto è un disonore. La fine dell’inferno non sono gli imprenditori che staccano la spina perché lasciare altre famiglie oltre alla propria in mezzo a una strada è un disonore.
La fine dell’inferno è in quella strada secondaria buia nella quale l’Italia sta morendo. E dove quel mandante con uno strano accento teutonico sta cercando di confinarla…
Wall & Street