«Il sindacato non capisce più i lavoratori»
Il recente sciopero dei dipendenti e dei giornalisti della Rai, le agitazioni del trasporto pubblico locale, lo stallo nel rinnovo del contratto Fiat sono tutti sintomi di un malessere profondo delle relazioni industriali. «Colpa della crisi», si potrebbe dire. Vero, ma fino a un certo punto. C’è un’incomunicabilità profonda tra rappresentanti dei lavoratori e aziende, tra sindacato e politica. Un’incapacità di ascoltarsi e di comprendere che ha radici profonde e che abbiamo cercato di tratteggiare attraverso questo intervento di Angelo Pasquarella, amministratore delegato di Projectland ed esperto di sociologia del lavoro.
«Atteggiamento sindacale contro atteggiamento antisindacale. Il tema è di moda anche a seguito delle posizioni emerse nelle ultime elezioni europee e dell’esito delle stesse. Penso che il problema non sia né politico né ideologico, semplicemente di natura sociale. È cambiata la composizione sociale dei lavoratori e sembra che tutti noi facciamo finta di nulla.
La cultura sindacale classica (che ormai dovremmo definire vecchia) esprime ancora logiche basate sulla produzione di massa e su lavoratori caratterizzati da attività di massa e di tipo esecutivo, da non elevata scolarizzazione che operano in ambienti rigidamente strutturati, come le fabbriche che conosciamo dalla seconda metà del novecento o in uffici nei quali il modello organizzativo è analogo. Questa realtà certamente esiste, ma non è ormai quella emergente.
Le aziende manifatturiere di successo che sostengono oggi, attraverso le esportazioni, l’economia italiana e che presumibilmente saranno l’ossatura dell’industria italiana di domani hanno una configurazione molto diversa e le persone che vi lavorano non corrispondono a quelle che i vecchi sindacalisti si immaginano. Queste aziende non basano la loro forza sul basso prezzo di prodotti standard ma sulla realizzazione di oggetti ad alto valore aggiunto in modo che il maggior costo del personale sia compatibile con il prezzo praticato sfruttando così anche il valore del brand “made in Italy” e puntando sulla diversificazione tecnologica o estetica.
Il valore aggiunto di questi prodotti di successo è però determinato solo in parte ridotta dal lavoro collegato ai processi produttivi materiali. Il successo è determinato e in misura assai maggiore dal lavoro degli operatori della conoscenza (design, marketing, ricerca e sviluppo tecnico, ricerca di mercato, tecnologie comunicative, investimenti in immagine e brand, innovativi modelli di vendita, processi produttivi sofisticati, brevetti, ecc.). Gli addetti a queste attività sono spesso, a seguito dell’automazione, più numerosi delle persone con mansioni esecutive. Ce lo spiega l’attuale composizione del Pil italiano. L’industria in senso stretto è confinata al di sotto di un 20%.
Non vi sono ancora studi rigorosi, ma si stima che siano (per la sola componente delle libere professioni non riconosciute) nell’ordine di oltre 3 milioni e mezzo ai quali si debbono aggiungere coloro che svolgono lo stesso lavoro con la qualifica di lavoratori dipendenti. Il sociologo Federico Butera che, ogni 5 anni, effettua una importante ricerca sui lavoratori della conoscenza in Europa, per l’Italia, li indica nel 43% dei lavoratori occupati.
Domandiamoci ora se gli attuali esponenti sindacali siano funzionali a questo nuovo contesto. La risposta è no. Questo spiega la disaffezione nei confronti del sindacato. Per questo non si tratta né di problema politico né ideologico: è invece un problema di mutata composizione sociale che comporterà cambiamenti in termini di cultura e di concezione del mondo del lavoro che solo oggi cominciamo a percepire nella loro reale portata».
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