La Dunkirk di Mario Draghi
Alla più grande ritirata della storia militare, celebrata da Christopher Nolan in Dunkirk ne sta per seguire un’altra in ambito economico-finanziario: quella di Mario Draghi dal Quantitative Easing, visto che i suoi colleghi delle grandi banche centrali mondiali hanno già dato il segnale di chamade. Joseph V. Amato, presidente e Chief Investment Officer Equities di Neuberger Berman ha ricordato che «tra i bilanci di Federal Reserve, Bce, Banca d’Inghilterra e Banca del Giappone, ci sono più di 13mila miliardi di dollari di liquidità in circolazione, un valore che sembra destinato a essere riassorbito». Se a questo si aggiunge che il Fondo monetario internazionale la scorsa estate ha ribadito che l’economia mondiale ha ripreso slancio, non c’è motivo per il quale gli istituti debbano creare inflazione ora che ciascun Paese sembra poter camminare sulle proprie gambe senza bisogno di aiutini.
Insomma, sui mercati aumenterà la volatilità e queste prime settimane di settembre lo fanno intravedere chiaramente. Per chi opera quotidianamente in Borsa la notizia non è di per sé negativa: bisogna solo attrezzarsi per contenere i ribassi e e avvantaggiarsi delle ondate rialziste quando si presentano. Ad esempio, in periodi di alta volatilità si guarda molto più ai fondamentali (utili, ricavi e prezzo) dei titoli rispetto ai periodi di vacche grasse in cui ci si concentra molto più sulle prospettive. Per i comuni mortali non vale lo stesso principio. «Si tratterà di un’impresa immane e che sara’ impossibile evitare contraccolpi, battute d’arresto e sorprese», aggiunge Amato ricordando come i mercati avessero previsto già da tempo queste mosse. Basti guardare all’euro/dollaro che ha superato, seppur brevemente, quota 1,20. Cosa c’entra? C’entra, c’entra. Se da un lato la flessione del biglietto verde è anche un segno di una scommessa di Wall Street contro la realizzazione delle ambiziose politiche di Donald Trump nel breve termine, dall’altro lato esso è lo specchio di un generale convincimento che l’Europa sia in un buono stato di salute e che l’andamento brillante del suo export (di qui il rafforzamento della moneta unica comprata per acquistare i prodotti del Vecchio Continente) sia lì a testimoniarlo. «In Europa, al momento, è scongiurato il pericolo della deflazione, ovvero della repentina diminuzione del livello generale dei prezzi, azione che induce i soggetti attivi nell’economia a posticipare a tempo indeterminato sia i consumi personali che gli investimenti nelle imprese», ricorda Fabio Accinelli, esperto di diritto dei mercati finanziari.
C’è da registrare, ricorda Accinelli, che «la Bundesbank, nella persona del suo presidente Jens Weidmann, spinge Draghi e quindi tutti i Paesi Ue ad una normalizzazione sul debito pubblico e la Merkel a gran voce incita tutti i governi Ue affinché non sia prorogato il programma di acquisto titoli da parte della Bce oltre il dicembre di quest’anno». La Germania, quindi, rileva la necessità di imporre, a scaglioni, la fine degli acquisti evitando così turbolenze sui mercati con un uscita ordinata ma programmata tempestivamente. La rivalutazione dell’euro sul dollaro è uno dei pochi pretesti rimasto a Draghi per ritardare il tapering anche se la Bce deve solo guardare alla stabilità dei prezzi e non (come invece dovrebbe fare una vera banca centrale) ai rapporti di cambio. Infatti il numero uno dell’Eurotower indica la forza dell’euro come un fattore che attutisce le dinamiche inflazionistiche.
Ma può funzionare un’Europa così? Secondo l’economista ed ex ministro, Giorgio La Malfa, la risposta è negativa perché non si può pensare di uniformare la politica monetaria a esigenze così differenti. Mentre la sospensione degli acquisti di titoli di Stato da parte della Bce è necessaria per la Germania, che sta sfiorando il 2% di inflazione e non ha altre leve per dare sollievo al proprio mercato interno, esso sarebbe deleterio per Paesi ad alto debito come l’Italia poiché comprometterebbe le chance di una ripresa duratura. Questa discrasia l’ha ricordata bene Giuliano Amato, costretto a un prelievo monstre sui conti correnti bancari, per far quadrare i conti dopo la crisi di fiducia patita dall’Italia sui mercati nel 1992 e riflessasi in una pesante svalutazione della lira che il governo, inutilmente, tentò di difendere, optando poi per una temporanea uscita dal «serpentone monetario», sistema di cambi fissi progenitore dell’euro. L’allora premier chiese aiuto alla Germania e poi alla Francia che ci lasciarono, come si dice a Oxford, in braghe di tela. Ora che l’euro è irreversibile non possiamo però non interrogarci sul passato.
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