Non è per il Sylvestre della finale di Coppa Coca Cola, ma per l’ennesima testimonianza, ben manifesta, che dell’inno nazionale italiano, altrimenti detto Il canto degli italiani, frega ormai a pochi, anche perché “l’Italia è ‘na cosa antica”, direbbero dalla segreteria del PD. E se “l’Italia è ‘na cosa antica”, dunque, riserviamole la cura che si ha per le cose antiche, musealizziamola con tutti i fanti, i Novaro, i Mazzini e i Garibaldi, i Giulio Cesare e i Cristoforo Colombo, schiavisti colonialisti, gli Enrico Mattei e i Guglielmo Marconi, i Dante e razzisti affini, i Monteverdi e i Raffaello, affinché non se ne perda il ricordo e se ne possa apprezzare la più profonda virtù. Andiamo a visitare l’Italia antica come le tombe etrusche di Tarquinia, prima che l’indolenza, l’incoscienza, la pigrizia, l’isteria, la burocrazia la rendano cenere, almeno sappiamo dove trovarla, almeno sappiamo che esiste ancora ed è protetta da quel fascino, da quell’intangibilità che si dedica alle cose antiche.

Polvere di stelle.

L’inno. Quella volta che Fico tenne le mani in tasca durante la sua esecuzione. L’altra volta, quando durante il Ferrari Day di Daytona la cantanta dimenticò le sue parole e ne storpiò goffamente senso e frasi; l’altra volta ancora, quando vollero cambiare le parole da “siam pronti alla morte” a “siam pronti alla vita”, in occasione dell’apertura dell’Expo; per tutte le volte che avrebbero voluto sostituirlo con Va pensiero, Bella Ciao, Azzurro, l’Inno a Roma, la Marcia Reale, Serenata per archi di Dvořák, M’hanno scomunicato dei San Culamo, Sunshine, lollipop and rainbows di Lesley Gore; infine, la nuova volta, l’ultima in ordine temporale, in cui Sergio Sylvestre lo ha brutalmente macchiato di fantasie erotiche politicamente corrette, facendo agli italiani la cortesia di ricordarsene almeno un pezzo, per poi brutalizzarlo.

Balconato, mutilato, stereotipato, inventato, umiliato.

Fardelli d’Italia, l’Italia s’appresta, a gettar patrioti giù dalla finestra, o ad utilizzare l’elmo di Scipio come pitale.

Non v’è più senso del presente capace di incarnare la storia, viene a cadere il simbolo che costituisce l’identità. Identità scollata, non corrispondente, né corrisposta agli italiani dell’oggi, curiose bestie schiacciate dalle faglie sempre in movimento dell’Africa che avanza da sud e dagli interessi globalisti e progressisti, della colonizzazione commerciale da nord, est e ovest. Non v’è più niente di sacro (così come si legge sul cartello che introduce alla vista del fiume Piave) intorno all’inno, non v’è riunione, né meditazione, non v’è più comunità unita dallo stesso destino, dalla stessa storia millenaria, né dallo stesso volto dei padri, tra cui spiccava lucente quello del giovane Mameli o quello di Novaro. I padri sono sempre più giovani di noi. Non v’è più niente che lega gli italiani a qualcosa di posto e superiore (di qui, sacro), di intoccabile, verso cui ogni logica ideologica decade, verso cui ogni capriccio politico si spegne.

Lancio una petizione, ovvero un peto mentale che diventa azione: cambiamo l’inno italiano con un successo che rappresenta pienamente lo spirito del tempo e della miseria umana che ci governa. L’ombelico del mondo di Lorenzo Cherubini. “Dall’Alpi a Sicilia dovunque è Legnano” e poi morti ammazzati, tizi desti ritti sulla cima dell’indipendenza, della fondazione di una Patria finalmente riuniti dopo secoli di schiavitù? L’Italia che torna a combattere e a vincere, ma stavolta unita, non più dietro i denari dei capitani di ventura, né al soldo di qualche potentato straniero ma nel sangue denso risorgimentale, che è eredità di quello rinascimentale (che unì l’Italia nel genio, nell’arte e nell’asse Natura, Bellezza e Assoluto) e che si compie ancora nel momento fondativo della Patria, la Grande Guerra? Tutti ‘sti elmi, ‘ste coorti, le penne, i polacchi, Ferruccio, ma che cazzo è, il remake di Ben-Hur? Volete mettere? “È qui che si incontrano facce strane, di una bellezza un po’ disarmante. Pelle di ebano di un padre indigeno e occhi smeraldo come il diamante. Facce meticce di razze nuove, come il millennio che sta iniziando. Questo è l’ombelico del mondo e noi stiamo già ballando”. La sentite la freschezza, la mischiagine, la meticciagine dantesca al contrario, il ritmo nel sangue ed il pisello grande (direbbe il filosofo urbano Caparezza), mi casa es tu casa, siempre, alla faccia dei ceceni e dei magrebini che si sparano in faccia a Digione, terra di proiettili alla senape?

L’inno nazionale. Se deve essere storpio, lo preferisco morto. Se deve essere forzata abitudine che non provoca più alcun sentire, lo preferisco atto esclusivo: dal canto degli italiani, al canto di alcuni italiani. Si proseguirebbe, così, l’imperativo dell’establishment culturale dominante, ovvero quello di riduzione a dimensione privata di ogni atto che rappresenta un’alternativa a ciò che regola la cultura di massa, storicamente in mano alle varie versioni delle sinistre. Alternativa non più da ridimensionare e soggiogare, vincendo un’elezione e orientando la politica economica e sociale del Paese in una determinata direzione, ma da estinguere sottraendole il diritto alla costruzione della Civiltà. Dimostrare amore per i simboli e i momenti nazionali, come regolare l’immigrazione (esempi beceramente veloci tra le decine) non sono più una richiesta “civile”, legittima e lecita in democrazia, ma una dimostrazione di arretratezza di chi lo propone, una barbarie neanche discutibile che deve essere estirpata dal dibattito ad ogni livello.

Riportiamo l’inno e la sua intensità (non emotiva, ma spirituale) sotto terra, come un antico anfiteatro che il vento e la pioggia renderebbero, altrimenti, granella di storia. Come le cose antiche. Proteggiamolo affinché torni ad essere il canto degli italiani carbonari, infrattati come i primi cristiani, esposto com’è all’abitudine godereccia di popolo o alla speculazione ideologica, alle manifestazioni sportive e militari.

Firmiamo la petizione che devo trovare il coraggio di lanciare.

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