«L’aggressività del fisco italiano ha raggiunto una dimensione che spaventa chi viene in Italia». Olaf Schmidt è il capo del dipartimento immobiliare dello studio legale Dla Piper. È tedesco, ma vive nel nostro Paese da molti anni e ha imparato ad apprezzarlo, sebbene continui a rimanere sconcertato dalle sue storture. La sua ultima esperienza è stata allucinante. «Abbiamo negoziato un contratto di compravendita di quote di una società immobiliare: occorre trovare un prezzo giusto che rappresenti il valore degli immobili e la loro progressiva rivalutazione». Cioè, si tratta di stabilire il «capital gain», ossia quanto le quote di questa società si siano rivalutate nel tempo in proporzione ai beni mobili e immobili detenuti. E proprio il «capital gain» è diventato il nemico numero uno, la bestia nera dell’Agenzia delle Entrate. Il vile profitto è qualcosa che va raso al suolo, a suon di tasse. «In ogni Paese – prosegue Schmidt – si conduce una normale trattativa e si cerca un risparmio fiscale che convenga a entrambe le parti».

Ma l’Italia non è uguale agli altri Paesi. «Se si evidenzia una componente di capital gain in queste transazioni, il fisco potrebbe pensare che si tratti della cessione di un immobile mascherata da passaggio di quote societarie». Il risultato? «I consulenti fiscali sono terrorizzati. Siamo arrivato a un livello tale di paura che gli operatori, non sapendo più cosa fare, pagano il massimo delle imposte per evitare di avere problemi». Spiegare l’astruso meccanismo è un po’ complesso ma ci proviamo: anche le imprese, come le persone fisiche, possono portare in detrazione le spese per gli interessi passivi dei mutui ipotecari. La griglia è rigidissima: da questo computo bisogna sottrarre gli interessi attivi (come quelli applicati ai crediti verso la clientela) e curarsi che non superino il 30% del margine lordo (la differenza tra ricavi e costi di un’azienda). Se qualcosa va storto, parte una raffica di accertamenti dai quali non ci si libera più.

Ecco perché l’Italia è sempre più indietro nei grandi progetti di sviluppo immobiliare, quelli portati avanti dai grandi fondi esteri. Si prende un terreno, si fa un piano (un grande centro commerciale, un complesso direzionale, ecc.) e si cercano finanziatori per costruire. Gli investitori guadagneranno dalla cessione o dall’affitto degli immobili. Semplice, no? In Inghilterra e in Germania funziona così. In Italia, invece, il mercato degli investimenti immobiliari nel 2014 dovrebbe essersi fermato a quota 6 miliardi, che sono il 33% in più dei 4,5 miliardi dell’anno precedente, ma restano pur sempre un misero 3% dei 180 miliardi di giro d’affari stimati per il settore in Europa. Fisco e burocrazia, secondo i calcoli di Dla, hanno fatto sfumare almeno il 10% delle operazioni. «Manca trasparenza e la burocrazia è un incubo», prosegue Schmidt. «Chi vuole effettuare un investimento che dipende dalla pubblica amministrazione ha sempre l’impressione di mettere il proprio destino nelle mani di qualcosa di imprevedibile. Quando ho cominciato 15 anni fa, il problema era identico», aggiunge. Come si fa a essere attrattivi se «un processo autorizzativo può durare da uno a tre anni perché ogni amministrazione può chiedere la sospensione dell’iter allungando i termini»? I processi non sono trasparenti e prevedibili e «questo spaventa molti clienti che altrimenti investirebbero in Italia nonostante il carico fiscale si mangi una grande fetta dei rendimenti».

Lo stesso discorso vale per l’alienazione del patrimonio pubblico. «È un processo dominato dai politici a livello statale, regionale e comunale», conclude ipotizzando che «per uno straniero sarà difficile entrare in un Paese come l’Italia dove le relazioni e le conoscenze personali contano moltissimo e i processi di selezione non sono determinati da criteri oggettivi». È un gioco che non sembra valere la candela, parrebbe di capire, perché laddove non ti divora il fisco ci pensano le pubbliche amministrazioni e la solita politica locale a farti passare la fantasia.

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