Provoca un tumulto interiore, una esplosione di rabbia, pena e umano smarrimento la vicenda di Betsy Davis, 41enne californiana, malata terminale di Sla, la quale ha inviato a parenti ed amici questa mail: <<Siete invitati a una festa, che durerà due giorni. Non ci sono regole. Indossate ciò che volete, dite ciò che pensate, cantate, ballate, pregate, ma non piangete davanti a me. Ok, una regola c’è>>.

Invito a prima vista senza senso; trattasi, al contrario, della organizzazione accurata e rigorosa della morte di una persona, la sua.

Una convocazione dei più intimi pronti a dare sfogo a musiche e danze e poi assistere alla fine di una vita.

Dopo i due giorni, è stata infatti accompagnata al suo letto e tutti hanno aspettato che cadesse in coma dopo aver assunto una dose letale di farmaci.

Parliamo dunque di una persona che decide di farla finita con la vita, ma che forse vita più non è. E di un party dal vago sapore paganeggiante in cui immagino tutti gli ospiti in sorrisi di circostanza e forzatamente dediti a stupidi convenevoli.

Da cattolico non dovrei incunearmi in un simile sentiero. Dovrei contestare chi ‘autonomamente’ fissa la data della sua fine come le etichette delle scadenze sui prodotti alimentari. Dovrei rifiutare frizzi e lazzi che precedono la morte di una persona ma faccio fatica a giudicare. Faccio fatica a puntare il dito contro una giovane donna per anni immobile su una sedia a rotelle o su un lettino e che magari ha solo sognato di rotolarsi in un prato e passeggiare mano nella mano con il suo bambino. E faccio ancor più fatica ad entrare nella mente di chi sa di non aver futuro.

Ecco, mi verrebbe in mente la frase di papa Bergoglio: <<Chi sono io per giudicare?>>. Seppur riferita all’annosa e più grossolana questione dei gay e che, rispetto ad un dramma del genere, è davvero misera cosa, mi verrebbe in mente solo questa frase: <<chi sono io per giudicarla?>>.

E la mia intima inquietudine è ancor più convulsa e senza via d’uscita perché ho tentato di mettermi pure nei panni degli invitati. Cosa avrei fatto al loro posto? Avrei accettato? Avrei fatto finta di non aver letto quella mail?

Nell’uno e nell’altro caso avrei compiuto qualche passo falso e allora, diciamola tutta: questa inquietudine è frutto di un senso del sacro e di una dimensione del trascendente che ormai non appartengono più ad un tempo come il nostro. Malattia e morte hanno accompagnato per millenni con diverse modalità e potenza simbolica ogni civiltà, mentre oggi sono demoni ingestibili. Siamo infatti la prima civiltà che vive più a lungo e meglio delle altre; che ha sconfitto tante malattie e che supera quotidianamente, grazie ai progressi della tecnica, ostacoli di vario tipo. Eppure siamo anche la prima civiltà che fa festa anche quando dovrebbe piangere perché vuole allontanare da sé l’amaro calice della realtà terrena.

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