Chi ha paura di Lovecraft?
Da qualche settimana è uscito per i tipi di Oakmond Publishing l’ultimo lavoro di Rosario De Sio, dal titolo Chi ha paura di H.P. Lovecraft (p.290, euro 14). Una monografia articolata e piena di spunti, che vaga nel mondo letterario horror ma anche nelle vicende private e pubbliche del cantore più popolare e conosciuto di questo genere che tale poi, in realtà, non è… visto che – proprio grazie a scrittori di primissimo livello come Lovecraft – si riesce a travalicare questi confini e si è in grado di tratteggiare, non solo sul fronte simbolico e allegorico, fenomeni compositi e certamente non legati solo a fantasie letterarie o a ricercati ambiti romanzeschi come la crisi dell’uomo moderno e il declino spirituale.
Ad incorniciarne i tratti di questo lavoro di De Sio sono due esperti del settore come Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco che, nell’ampia prefazione che qui di seguito riportiamo integralmente, rammendano con maestria tutte le coordinate entro le quali si muove l’opera di Lovecraft.
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Esattamente sessant’anni fa, nel 1960, apparve in Francia un libro straordinario e terribile, che ha avuto un grande influsso (anche se non pienamente riconosciuto) su tutta la cultura occidentale. Il libro era Le matin des magiciens, di Louis Pauwels e Jacques Bergier, intitolato Il mattino dei maghi nella traduzione italiana, apparsa tre anni dopo, con un’importante introduzione di Sergio Solmi. In quel libro, si legge la frase seguente: «Per aver tentato di superare i limiti dell’Universo, immaginando un numero più grande di tutto ciò che si potrebbe concepire nell’Universo stesso, per aver tentato di concepire un concetto che l’Universo stesso non potrebbe riempire, il geniale matematico Cantor è stato ingoiato dalla follia. Ma c’è un’ultima porta, che neppure l’intelligenza analogica può disserrare. Poche opere eguagliano in grandezza metafisica quelle in cui H.P. Lovecraft tenta di descrivere l’impensabile avventura dell’uomo risvegliato, ovvero di colui che giunge a socchiudere quella porta e, così facendo, avanza la pretesa di introdursi là dove Dio regna oltre l’infinito…» Il Mattino dei maghi ebbe il merito di scuotere la cultura europea ingessata dal realismo socialista, ricordando che nella vita c’è anche qualcosa di più che si può perseguire oltre alla soddisfazione del proletariato. A parte ciò, ebbe anche il merito non secondario di proporre all’attenzione del pubblico un autore pressoché dimenticato, come appunto Lovecraft.
Ci sono autori che segnano intere epoche, nel senso che, dopo il loro passaggio, il panorama culturale non è più lo stesso. Nell’ultimo ventennio del secolo scorso, due autori sono emersi, soprattutto nella cultura giovanile, a scardinare il sepolcro, che sembrava definitivo, in cui il realismo aveva rinserrato la letteratura: J.R.R. Tolkien e, appunto H.P. Lovecraft. Il loro fascino sugli intelletti ancora in formazione è testimoniato dallo stesso autore del libro che avete fra le mani, che li colloca al principio del suo bel viaggio all’interno della narrativa dell’immaginario alla ricerca delle radici della paura.
Tolkien osò far saltare il bastione principale della narrativa realistica, ovvero l’intangibilità della storia, soprattutto quella raccontata dai vincitori. Con i suoi libri ha mostrato che le nostre emozioni possono essere toccate nel profondo anche da una storia che non esiste di per sé, ma soltanto nel rapporto intimo fra autore e lettore. Ed è una storia che non ha fondamento allegorico, cioè non vuole indicare, sotto mentite spoglie, qualcosa che in realtà riguarda la storia vera (su questo, Tolkien fu chiarissimo), ma crea un mondo emotivo tutto nuovo, che vive di per sé e commuove per ciò che è. Sappiamo, attraverso gli infiniti romanzi, film, serie televisive, giochi, che sono nati in seguito a questo concetto, quanta importanza esso abbia avuto nel plasmare la cultura popolare contemporanea. E sappiamo anche quanto aspra sia la critica degli estremi e stentorei difensori del sepolcro realista contro un’evidenza dei fatti che viene a vulnerare i loro vetusti schemi ideologici. Dopo Tolkien, il mundus imaginalis della nostra cultura non è stato più lo stesso.
L’azione di Lovecraft è stata più sottile, ma non per questo meno profonda. A differenza di Tolkien, che si muove sul terreno epico ed eroico, l’autore di Providence si apre la strada in quella che lui stesso giudica la più intensa delle emozioni umane: la paura, che – scrive de Sio nel suo saggio – «nel senso ideologico costituisce una sorta di risposta speculare al rapido processo di trasformazione del secolo e all’inquietudine che avrebbe caratterizzato successivamente il passaggio al 900», ed è quindi anche una delle chiavi, se non la principale, per capire il mondo di oggi.
Per affrontare questo tema, Lovecraft riesamina e rielabora le caratteristiche della paura quali vennero codificate in due secoli di letteratura gotica, nella quale la paura è, sottolinea sempre de Sio, «quell’elemento che sta alla base della fabula, muove l’azione, (…) l’impalcatura invisibile che regge l’intera struttura narrativa.» L’elemento di assoluta originalità di Lovecraft, è che la sua paura non muove da origini interamente nascoste nell’animo umano, come per esempio in Poe, ma lo trascende. Indicano questo, con grande sottigliezza d’ingegno, i citati Pauwels e Bergier quando parlano della sua «pretesa di introdursi là dove Dio regna oltre l’infinito». Trascendere l’umano è ambizione di tutti. Trascendere il divino, ridurre gli dèi stessi a strumenti della propria elevazione spirituale, è impresa destinata a pochi.
C’è un’opera di Edvard Munch che conosciamo tutti: il quadro, eseguito in molte versioni, intitolato L’urlo (1895). Lo stesso artista ce ne racconta la genesi: «Una sera camminavo lungo un viottolo in collina con due compagni. Era il periodo in cui la vita aveva ridotto a brandelli la mia anima. Il sole calava fiammeggiando sotto l’orizzonte, Sembrava una spada infocata di sangue che tagliasse la volta celeste. Il cielo era di sangue… Esplodeva il rosso sanguinante mentre i miei amici assumevano un pallore luminescente, e ho avvertito un grande urlo, l’ho udito realmente… le linee e i colori risuonavano vibrando… e poi ho dipinto L’urlo.»
Chi osserva il quadro, non vede motivo apparente per cui l’uomo debba urlare il suo terrore. Nulla, nel disegno, è irreale, o spaventoso, o anomalo. Tuttavia, dall’insieme dei simboli raffigurati, emerge un’inquietudine, un senso di dispossessione che taglia il reale «come una spada di sangue» e genera un’angoscia invincibile, un orrore profondo e inspiegabile. L’uomo che urla è ridotto a una figura grottesca, un coagulo di opacità minerale scosso fino a spaccarsi da una tensione interna che lo strazia, e che si sublima in un grido prodromo di follia.
Per molti, la tensione lacerante espressa dalla figura che urla è un punto d’arrivo. Per Lovecraft fu un punto di partenza. Ce lo rivela lui stesso nelle sue lettere, parlando degli incubi orrendi che insegnarono, a lui bambino, la durezza dell’esistenza, dopo la morte del padre, impazzito sembra per la sifilide, la rovina economica della famiglia, le prime dimostrazioni della follia della madre. Incubi che presero la forma di creature orrende, i night gaunts, o magri notturni, diaboliche entità predatrici sorte dalle tenebre a perseguitare le sue notti di fanciullo ipersensibile e solitario. Fu nel 1895 (lo stesso anno in cui Munch dipinse L’urlo e H.P. Lovecraft aveva solo cinque anni) che si manifestarono per la prima volta i magri notturni. Fino al 1937, per quarantadue anni, che sono più di quindicimila notti, Lovecraft visse gomito a gomito in un intermittente delirio, con i fantasmi della sua angoscia. Non fu una convivenza semplice. Burattino e burattinaio, regista e attore di uno spettacolo infinito, prigioniero di un gioco di specchi che eternamente rimandano la medesima immagine distorta, nel groviglio delle frustrazioni, delle ansie, dei disgusti e delle sconfitte, egli dovette individuare il filo cui aggrapparsi per evitare il naufragio, per scampare alla rovina mentale che già aveva travolto i suoi genitori.
Aveva vent’anni, Lovecraft, quando comprese definitivamente che il suo mondo era lì, nella sua stanza. Pochi metri quadrati di buio in cui avvenne l’evocazione del più compiuto universo fantastico di tutta la storia della letteratura fino ad allora. Non fu, come ha sostenuto qualche mal ispirato biografo, un atto di fuga da un reale insopportabile. Al contrario, fu il segno di un coraggio disumano e incredibile. «La vita o si vive o si scrive», dice Pirandello nel suo romanzo Il fu Mattia Pascal. Lovecraft risolve di vivere e scrivere a un tempo la propria vita: tanto più dolorosamente vivendola, quanto più fervidi erano i panorami fiabeschi che gli schiudeva la sua fantasia onirica. Nel far ciò, egli – inconsapevolmente, perché fu il più feroce critico della propria opera – fa da spartiacque nel genere fantastico, ergendosi come «un vero e proprio innovatore del genere e questo lo vediamo soprattutto dal percorso artistico che Lovecraft compie, un percorso che affonda le radici nella narrativa gotica ma che poi si evolve sempre di più raggiungendo uno stile di scrittura particolare e inconfondibile, affrontando tematiche del tutto rivoluzionarie rispetto alla tradizione
precedente; in tal modo Lovecraft si pone come un rinnovatore del genere stesso, svecchiandolo e incanalandolo in una nuova direzione. Getta in tal modo le basi per la nascita di un nuovo filone narrativo che lui stesso denominò orrore soprannaturale», scrive sempre de Sio.
All’origine dell’universo lovecraftiano non vi sono né sillogismi, né filosofemi, né compiacenze letterarie, né allegorie ideologiche. C’è viceversa lo sforzo doloroso e amaro d’infrangere la solitudine di un’esistenza disperata tendendo l’orecchio a quel raspare d’ali d’incubo che s’avverte oltre la porta della stanza in penombra. Come un tenebroso sipario, le ali dei magri notturni si sollevano a rivelare l’apparenza grottesca di entità che sono il simbolo delle nostre pulsioni recondite, dei nostri desideri inconfessabili, delle nostre ambizioni e dei nostri terrori.
Emergono così da buio i profili immondi delle divinità nate dal profondo, incubi ai quali Lovecraft ha dato un connotato simbolico ben preciso: Shub-Niggurath, la sessuofobia latente sfogata dissacrando il sesso, che un tempo era il dato fondamentale della sacralità; Cthulhu, la brama di potere assoluto che dorme in attesa di riaffiorare quando la tempesta è al culmine; Nyarlathotep, la tentazione di sconvolgere l’ordine a favore di una rivoluzione permanente il cui esito è il caos; YogSothoth, l’illusione che possiamo comprendere e dominare l’Essere sondandone soltanto la materialità, e impadronendoci dei sali fattizi delle cose; e infine il culmine degli orrori: Azathoth, il cupio dissolvi che ha ormai invaso irresistibilmente la civiltà occidentale.
Non sono incubi personali. Come mise in luce già cinquant’anni fa Dirk W. Mosig, che resta il critico lovecraftiano più percettivo di sempre, sono gli incubi di un’intera cultura, quella occidentale, che va smarrendo se stessa dietro le paure che genera da sola o che le vengono inoculate.
Evocare figure simili, misurarsi con esse e farne lo strumento per ribaltare la propria condizione esistenziale, non è poca cosa. L’ambizione, il desiderio, la razionalità, il confronto con i proprio simili e con i diversi sono, per tutti noi, esperienze comuni del vivere. Per Lovecraft, figlio di genitori entrambi nevrotici, vissuto nella reminiscenza di un passato di glorie familiari ormai estinto e sepolto, cresciuto timido e introverso, incapace di affermarsi, tutte queste cose erano figurazioni d’incubo, emerse a tormentarlo nella sua solitudine, specie negli anni formativi della prima giovinezza.
«Come mosche per ragazzi oziosi, tali siamo per gli dèi: ci uccidono per divertirsi», scrive Shakespeare nel Re Lear. Le divinità di Lovecraft sono ancora peggiori: del tutto indifferenti alla nostra miseria, lasciano che le nostre paure ci trascinino in fondo, insensibili alle nostre grida. Sono molti quelli che, al posto di Lovecraft, chiudono gli occhi di fronte all’incubo e s’accontentano di vivere un’esistenza inerte, senza speranze e senza ambizioni. Lovecraft si rifiutò. Non soltanto guardò dritto negli occhi i suoi incubi, ma diede loro forme e connotazioni simboliche ben precise, per ciascuno andando a scavare l’origine profonda negli abissi dell’anima. Ne fece divinità grottesche e crudeli, quali in effetti sono: ma nel tempo stesso ne indicò le intrinseche debolezze, fornendo i mezzi per dominarle, come fa l’evocatore che suscita i demoni dal suo cerchio magico. Questa totale disumanità, nota de Sio, ha una conseguenza di non poco conto: «nella letteratura di Lovecraft cessa la visione antropocentrica, l’interesse dello scrittore non è più rivolto all’uomo o al mondo ma a ciò che sta dietro il mondo sensibile e materiale.» La sua visione non è più umana, ma cosmica.
In questo, Lovecraft fu scrittore di straordinaria modernità, perché l’ambiguità del reale, l’incertezza del vero, il timore di un universo sempre più vasto e sconosciuto, e la parallela crisi delle ideologie, sono il labirinto nel quale brancola oggi il pensiero scientifico e filosofico, che la fisica quantistica ha privato delle ultime certezze sopravvissute alla relatività einsteiniana. Con intelletto sbalorditivamente anticipatore, il figlio di Providence si rese conto che la descrizione della realtà com’è percepita dai sensi ed evocata dai sentimenti non esaurisce in alcun modo la rappresentazione di un universo che è infinitamente più vasto di quanto la nostra mente e il nostro cuore possano concepire. Comprese che la nostra logica è inadeguata a imprigionare in formule esatte fenomeni che ignorano le categorie aristoteliche, non tengono conto delle leggi di causalità e seguono sequenze temporali diverse da quelle dell’esperienza comune.
Gli scienziati di vecchia formazione, concettualmente inadeguati ad affrontare in modo consapevole questo stato di cose, continuano ad elaborare il tutto in formule che si basano sui soliti modelli, tagliandone via le variabili di cui non sanno come tenere conto. I filosofi, digiuni di matematiche e intrisi di ottocentesco razionalismo, percepiscono tuttavia che qualcosa sta cambiando e, incapaci per difetto d’ingegno di afferrare il nuovo, ricorrono ad architetture deboli per mascherare la loro inettitudine ad affrontare la rivoluzione in atto. I letterati, digiuni di tutto fuorché del proprio ego, non hanno ancora capito nulla di quel che sta succedendo e hanno ridotto la narrativa moderna a pamphlet politico, o a catena di montaggio per esercizi d’evasione, o a pratica psico-masturbatoria. Lovecraft invece intuì l’isolamento del pensiero contemporaneo in un mare di enigmi e ne conseguì un lacerante brivido di paura. I suoi incubi sono un riflesso di questa angoscia, ma hanno aperto una strada sulla quale finora nessuno, nel mondo della cultura, dopo di lui ha avuto ancora il coraggio d’incamminarsi. Per questo non ha avuto eredi: è unico e temiamo resterà tale ancora a lungo Per i motivi che abbiamo cercato di esporre, capire Lovecraft è anche, in un certo modo, capire le radici dell’inquietudine del mondo contemporaneo, che continuamente evoca da dentro di sé incubi che poi non riesce a dominare. La radice del fascino di Lovecraft presso le giovani generazioni è che esse percepiscono, sia pur confusamente, che i suoi terrori non sono i terrori di un individuo, ma di tutta una cultura. Studiare Lovecraft significa studiare il nostro mondo nei suoi risvolti più cupi, quelli che chiude dentro di sé e non osa svelare neppure a se stesso.
Per rispondere alla domanda espressa dal titolo di questo libro, ad avere paura di Lovecraft sono i benpensanti, coloro che si adagiano nella tranquillità del normale, non vedono al di là delle loro pantofole e non avvertono né i tremori di un mondo che cambia né i lampi del caos che si annida sotto il velo dell’ordine. A tutti costoro farà bene la lettura del saggio che qui presentiamo. Forse, dopo, troveranno il coraggio di leggere anche Lovecraft. E comprenderanno, come conclude con acutezza de Sio, che in tutta la sua opera «Lovecraft non fece altro che prendere lucidamente coscienza della condizione umana».