L’eco della Germania segreta
La “Germania segreta” «evocata dapprima, sul piano artistico ed estetico, dalla musica di Wagner, quindi esplicitamente riecheggiata in una lirica di George del 1919 e poi celebrata, nel 1933, in opposizione al nazismo, dallo storico di origine ebraica Ernst Kantorowicz quale anima nascosta e rimossa del genius tedesco più nobile, serenamente eroico e creativo» è ancora quel luogo dell’anima e della mente e quella terra misterica e profonda poco sondata e conosciuta dai contemporanei. Questo è quanto scrive Romani Gasparotti nella prefazione all’ultimo libro di Giovanni Sessa, L’eco della Germania segreta. «Si fa di nuovo primavera» (Oaks edizioni, p.200, euro 18) nel quale si ripercorrono le biografie intellettuali di cinque grandi pensatori (Stefan George, Ludwig Klages, Ernst Jünger, Walter Benjamin e Karl Löwith) attraverso opere memorabili che si intrecciano nello snodo composito tra antica e nuova Germania e nei riverberi tra noto e ignoto. Un volume denso di richiami e annotazioni, che si sostanzia anche della introduzione di Marino Freschi (di cui riporto il testo completo qui di seguito) e di un’Appendice di Giovanni Damiano .
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Stefan George: La primavera del mito
“C’era una volta la Germania Segreta”, quella proclamata, anelata con nostalgia e con la fiducia dell’immemorare, per usare un’espressione centrale nel lavoro di Giovanni Sessa. In una conferenza del 2015 su Ernst Kantorowicz il più noto divulgatore italiano di storia, Alessandro Barbero ricorda che il giovane studioso di Posen-Poznan nel 1920 incontrò a Heidelberg il suo vero maestro Stefan George, poeta che, a detta di Barbero, sarebbe oggi completamente dimenticato. Affermazione azzardata che non tiene conto dei numerosi studi internazionali, soprattutto tedeschi, francesi, inglesi e italiani, tra cui alcuni intriganti contributi, saggi e monografie come quella di Margherita Versari, La poesia di Stefan George. Strategie del discorso amoroso, (Carocci, Roma 2004) e il decisivo saggio del 2011 di Maurizio Pirro, Come corda troppo tesa. Stile e ideologia in Stefan George, per i tipi di Quodlibet. Possiamo anche menzionare varie antologie, ricche di annotazioni, da quella a cura di Giulio Schiavoni del 1986: Stefan George, Giorni e gesta. Annotazioni e abbozzi, Marsilio,Venezia (riproposta da SE, Milano nel 2015), come pure la silloge georgeana del 2009 a cura di Umberto Colla, Poesie, per le edizioni AR, Padova 2009, nonché sempre di George le Prose d’arte e di letteratura. Introduzioni ai “Fogli per l’arte” e Giorni e opere, a cura di Giancarlo Lacchin, con traduzioni di Lacchin e Maria Luisa Roli, (Agorà & Co., Lugano 2016), mentre di quest’anno è la riproposta della significativa allocuzione di Gottfried Benn: La gioventù chiama gli dèi al risveglio. Professione di espressionismo. Allocuzione in onore di Stefan George, ancora per le Edizioni di AR. In stampa è inoltre il 59° fascicolo monografico, tutto dedicato a Stefan George, della rivista «Cultura Tedesca» a cura di Gabriele Guerra (autore nel 2013 di un importante saggio su Benjamin lettore di George) e di Maurizio Pirro, già citato quale principale studioso italiano del poeta renano. Insomma anche da noi si conferma una fiorente rinascita di studi dedicata al ‘vate’, al maestro del George-Kreis.
In Germania nel 2012 si è conclusa un’opera storico-critica fondamentale in tre volumi dedicata a George, a cura di Achim Aurnhammer e altri. La bibliografia della George-Forschung comincia a essere così vasta da richiedere volumi specifici sugli ormai innumerevoli studi sul poeta di Bingen. Nel mare magnum degli studi su George un posto centrale è, inoltre, assunto dalla “Germania Segreta”, su cui in Italia aveva già richiamato l’attenzione Furio Jesi, che, sulla scia dell’intuizione di Kerényi sul pensiero e l’esperienza mitica, intendeva la ‘Germania Segreta’, piuttosto che un tema o un topos letterario,come annuncio mitico, come un mitologema della modernità, ossia una funzione mitopoietica in continua evoluzione, in grado di organizzare diversi, perfino contrastanti contenuti intorno a un significato unificante, che li aggregava attraverso il ricorso a immagini cariche di valori simbolici. E proprio sul mito del Geheimes Deutschland, così intensamente vivente negli anni Venti – fino all’ascesa al potere di Hitler, il falso Führer – sono sorti di recente, come si è detto, studi validi che chiariscono la cartografia delle scritture di George e dei suoi discepoli, sostenendo la tesi che proprio simile mito costituisca il fondamento della poetica e dell’ideologia del poeta e dei suoi discepoli.
Come ha ben messo in luce Giovanni Sessa, il complesso di formule e di motivi calamitati dal mito (ma non tutti gli studiosi ne accettano l’interpretazione mitica) del Geheimes Deutschland è sorto in un momento cruciale della storia della Germania, e si è sviluppato sorprendentemente dopo la grave sconfitta del 1918. Come sintagma era già comparso nel saggio di Karl Wolfskehl del 1910, uno dei primi discepoli del Maestro di Bingen e uno dei primi che seppe coniugare ebraismo e germanesimo, insieme a Friedrich Gundolf, Ernst Kantorowicz e l’‘eretico’ Rudolf Borchardt. Il fortunato mitologema torna centrale nel 1915 nella conferenza ‘in divisa’ di Norbert Hellingrath, il geniale editore e riscopritore di Hölderlin, che lega indissolubilmente il grande poeta svevo al George-Kreis. Alla sua conferenza, che dedicava a Hölderlin la nuova gioventù in armi, assistevano oltre a Wolfskehl, Rilke, Alfred Schuler e Ludwig Klages, i due protagonisti dei ‘cosmici’, su cui si soffermano Sessa, nonché Giovanni Damiano nell’illuminante contributo Evola e i “Cosmici monacensi” a conclusione del presente volume.
Hellingrath morì pochi mesi dopo nella battaglia di Verdun, con opere di Hölderlin e George nello zaino: era un segno di fedeltà, ma anche la proposta fondativa di un nuovo canone che integrava (o addirittura sostituiva) Goethe con il poeta svevo quale vero precursore di George, che ne diveniva l’erede. Il Maestro di Bingen assumeva quell’esperienza che Sessa chiama, rifacendosi a Benjamin, l’Eingedenken, l’immemorare, «condizione che apre al “futuro ricordato”, caratterizzante la concezione “aperta” della storia» di Benjamin.“Futuro ricordato”: il pensatore berlinese aveva intuito l’energia concettuale ed esistenziale, originale-originaria del poeta di Bingen, che per lui -sempre secondo Sessa- divenne «l’eroe del movimento della gioventù tedesca: dai suoi versi, stando alla lezione di Walter Benjamin, i giovani trassero il “coraggio della conoscenza”».
L’intreccio tra il poeta e il suo Kreis si rafforzò con gli studi sulla figura carismatica del Dichter, del poeta-maestro, -apprezzati da Benjamin-, di Max Kommerell, altro esponente di spicco del circolo di George. Affiora una fitta trama che unisce le principali esperienze poetiche e metapolitiche del dopoguerra, ancora segnate dalla clamorosa e quasi imprevista resa militare tedesca, con quelle aspirazioni che si erano fatte strada nel movimento giovanile, la cui ‘anima’ -ammesso che ce ne fosse una e una sola- non poteva essere ricondotta nell’alveo delle concezioni della Germania guglielmina, statuendo, poeticamente e concettualmente, quel “Nuovo Inizio”, che non si realizzò, quell’origine, quell’‘Ur-sprung’, che, appena intravisto, disparve. Era, quella della Germania Segreta’, un’‘anima’ che rivendicava nel suo immemorare, nella rivivificazione della tradizione una nuova e insieme antica, metastorica valenza. Il ri-cordo era etimologicamente un’esperienza vissuta, un Erlebnis unico del cuore, del centro dell’uomo, dell’umanità, come l’avevano compreso i greci e i tedeschi, i nuovi Elleni. Sì, era la Germania Segreta che affiorava, quella che si era annunciata con Winckelmann, con Goethe e Schiller, con i romantici, con Hölderlin e infine quella che con George e il suo Circolo aveva ribadito la radice greca, nietzschianamente apollinea-dionisiaca del ‘Nuovo Inizio’, irrorato dalla vocazione ellenica. Era la nostalgia che, per quella generazione stretta intorno a George, avrebbe dovuto additare, – sempre per Sessa -, la: «via dei pochi e del divino: “Un piccolo gruppo percorre taciti sentieri/ Fieramente discosto dal fermento operoso/ E come motto porta sulle sue bandiere:/Alla Grecia in eterno il nostro amore”».
Sono noti i rapporti di Benjamin con la Jugendbewegung, coi Wandervögel, con quella manifestazione spontanea e aurorale di una comunità alternativa alle correnti di massificazione e industrializzazione distruttivamente egemoni a partire dal Secondo Reich. Non a caso il movimento giovanile prese le mosse proprio da Berlino, dai liceali di Steglitz, che, pervasi di romanticismo, di Nietzsche e di Volkslieder, diffusero il loro esempio fulmineamente in tutta la Germania a testimonianza dell’impetuoso desiderio di ritrovare la sorgiva esperienza della natura, quella romantica e quella mitica dei nobili Elleni. Era l’affermazione di una nostalgia antimodernista che tentava di inventare nuovi rituali e nuove liturgie nei boschi, attorno ai fuochi in nuove fratellanze appassionate, celebrate nei fini settimana, quando i nostri giovani erano liberi dalla scuola: erano, infatti, anche entusiasti studenti studiosi. E qui, in quelle Wanderungen nelle foreste, come pure nelle biblioteche le fila si intrecciano tra George, i suoi discepoli, Benjamin e la tradizione mistica ebraica, a cui il pensatore di Berlino rimase sempre legato, come ha esaurientemente dimostrato Gershom Scholem, l’amico di una vita. Lo stesso marxismo del Benjamin maturo è assai discusso e discutibile, ancorché esistente come testimoniano le sue frequentazioni capresi con Asja Lacis e soprattutto con Brecht, ma Sessa approfondisce le categorie del materialismo benjaminiano tutt’altro che connesso alla dialettica marxista, specie quella sovietica del dopoguerra, proponendo un intrigante «materialismo stoico» piuttosto che storico. Un atteggiamento concettuale – ed esistenziale – che si può collegare alla “sobria inquietudine” – come la chiama Sessa- di Karl Löwith, l’altro grande pensatore ebreo-tedesco, aperto ai temi avanzati da George e da Benn.
Ma se questo può essere accettato, lo è per le contaminazioni intellettuali, allora non inusuali specie tra pensatori ebrei, con sotterranee correnti dell’eterodossia marxista come confermano la filosofia di Ernst Bloch, ma anche quella del primo Lukács, nonché i lavori teorici della Scuola di Francoforte con Fritz Pollock, Max Horkheimer, Adorno e Herbert Marcuse. Si tratta di una cultura ormai lontana e di un’altra Germania, quella crollata sotto i bombardamenti e dissoltasi a causa della tragedia del Terzo Reich di Hitler, il più acerrimo nemico della Germania Segreta. Non a caso,come ricorda Sessa, George aveva avvisato, per tempo, i suoi discepoli poiché «Fin dal 1898 aveva rivolto ai suoi un invito profetico: “Non gioite! Sarà forse colui che è stato per anni nelle vostre prigioni a venire a compiere l’impresa”. Hitler, appunto». Dell’avvertimento se ne ricordarono bene due discepoli del Maestro, i fratelli Stauffenberg, uniti nell’esecuzione dell’attentato a Hitler del 20 luglio 1944. Fallito, come si sa. Klaus von Stauffenberg morendo seppe ancora gridare: “Viva la Germania Segreta”. Alcuni affermarono che avesse detto: “Viva la Santa Germania”. Fu una strage e a cadere furono i leali componenti dello schieramento conservatore: coloro che avevano creduto in una autentica rinascita della Germania, nel risveglio dell’imperatore dormiente a Kyffhäuser, il vecchio Re nella Montagna, una variante imperiale del messianismo nella sua coniugazione germanica.
Rari i superstiti, tra cui Ernst Jünger, che sull’altare del Moloch aveva sacrificato il figlio Ernstel, vittima nella lotta partigiana in Italia o del ‘fuoco amico’. Lo scrittore si ritirò dal 1950 in Svevia a Wilflingen nella foresteria del castello dei von Stauffenberg. Casualità eloquenti di una ritirata e del tramonto di un’età del mito che ha radici profonde. Secondo Kantorowicz il mito dell’imperatore – lui pensava a Federico II di Svevia nel suo celebre libro del 1927, pubblicato nella collana dei ‘grandi tedeschi’ di George (con la svastika in copertina, prima che la stravolgessero le camicie brune) – era ancora vivente e attivo: così conferma con il famoso episodio del viaggio a Palermo nell’anno federiciano, 1924 – a settecento anni dalla fondazione dell’ateneo napoletano che porta il suo nome: Università Federico II -, quando con altri sodali depose una corona sulla tomba dell’imperatore con la scritta: A Federico II la Germania Segreta”. Per Kantorowicz si era testimoni di una età senza imperatori – e ormai senza Reich. Ma già Schiller aveva constato che quella realtà senza imperatori era un’età “spaventosa”. Ed è quello spavento, quale sostanza dell’attuale nichilismo innocuo, innocente e gaudente, che è sceso sulla Germania e dunque sull’Europa. Le ultime voci per un nuovo Reich – questo il titolo dell’ultima composizione del 1928 di George- si diradarono velocemente. Il Maestro era riparato in Svizzera, nel Ticino per non assistere all’ascesa al potere del falso Führer. I suoi discepoli si dispersero, alcuni – gli ebrei – emigrarono: Wolfskehl in Nuova Zelanda, Ernst Kantorowicz in America. Altri aderirono perfino al Terzo Reich come Ernst Bertram, pur autore (sempre nella collana del Kreis) di una monografia assai georgeana: Nietzsche. Versuch einer Mythologie del 1918, molto apprezzata dal poeta (che aveva voluto quel titolo), ma anche da Thomas Mann. Così si dimostrava che finché si era vicino al centro del Kreis, al suo animatore, si potevano scrivere anche grandi libri, per scivolare nell’insignificanza appena ci si allontanava per aderire alle volgarità delle schiere nazionalsocialiste. Hitler pose fine a un movimento grandioso, che ora con attenti scavi di moderna archeologia letteraria, riaffiora in studi spesso raffinati. Se quell’Eingedenken, quell’immemorare potrà mai tradursi in una nuova primavera resta, con i tempi che corrono in Germania e in Europa, a dir poco, dubbioso.
Certo l’opera della testimonianza è data come conferma con questo denso saggio, ricco di fervore teorico, il filosofo di Alatri, che tende a riaffermare la concreta speranza di illustrare e illuminare «il compito, certamente non modesto, di suggerire una via atta a farci guardare il mondo quale eterna fioritura, eterna primavera dionisiaca». È veramente raro in questo età autunnale – Sessa la definisce ‘hiemale’- incontrare questi rinnovati auspici al fine di riscoprire le tracce di George e dei suoi discepoli. Era, la loro, una sensibilità che segnalava l’accesso a un’esperienza aurorale, a una “nuova primavera”, stagione per antonomasia sempre nuova.
Quella comunità d’intellettuali – poeti e pensatori – aveva creduto che il mito – non nazionale, ma universale – della Germania Segreta (come universale e non nazionale è l’imperituro mito della Grecia) racchiudesse la «grande trascendenza della nuova epoca» per ricordare la definizione di Gottfried Benn nel suo discorso in memoria di George, commissionatogli, ma non confermatogli, dall’Accademia delle Arti del Terzo Reich per onorare la scomparsa del poeta di Bingen. Fu l’ultimo atto della rottura di Benn con il nazismo a conferma che l’età ‘bruna’ era agli antipodi dalla sorgente primavera palingenetica intravista da George e dai suoi discepoli, nonché, appunto, – con tutte le sfumature e le varianti personali e concettuali -, da Benn, dai Cosmici di Monaco, da pensatori ebreo-tedeschi come Benjamin e Löwith, dai nazional-bolscevichi come Jünger. Erano un mondo e un’epoca definitivamente tramontati, era una Germania, sconfitta, ma non vinta interiormente. La dissoluzione avvenne rapidamente con la Germania inabissatasi a causa della dittatura nazista. I testi che ci sono stati consegnati sollecitano venerazione e rispetto per quelle estreme fiaccole nell’attuale notte del nichilismo passivo e perfetto.
Marino Freschi