IMG_3450Il 2018 si chiude con la decisione del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di ritirare le truppe dal teatro siriano e parzialmente (si parla di 7mila soldati sui 14mila attualmente presenti) anche dall’Afghanistan. La notizia è cosa nota. Ma cosa significa davvero? Il tycoon newyorkese ha davvero vinto, come in molti si sono affrettati a sostenere, la sua personale guerra con il deep state? E davvero sta tentando di porre fine all’imperialismo, come qualcuno pensa?

Difficile. Certamente Trump ha vinto una battaglia nei confronti dell’establishment globalista che gli era ostile, riuscendo a imporre, insieme al suo gruppo di fiducia, un parziale (e bisognerà vedere quanto effettivo) ritiro dal contesto mediorientale, nell’ottica di un piano di cessione di responsabilità nei confronti degli alleati regionali (Arabia Saudita, Israele e la Turchia, cui i partners occidentali hanno appena accordato la vendita, dopo l’acquisto da parte di Ankara degli S400 russi, anche dei Patriot americani) d’altronde già abbozzato nell’era Obama e che doveva portare a compimento il progetto per una NATO araba  (l’alleanza MESA), variante del piano che però, al momento, sembra essersi arenata sullo scoglio della rivalità tra sauditi da un lato e qatarioti (e turchi) dall’altro. Rivalità che ha prodotto, come principale spin-off, la vicenda Khashoggi.

Comunque sia il ritiro statunitense dalla Siria e le pubbliche manifestazioni di dispiacere di noti esponenti delle elites globaliste (come il presidente francese Macron, che vede definitivamente svanire qualsiasi possibilità di influire sull’ex colonia) certificano probabilmente in via definitiva la sconfitta del progetto di regime change caldeggiato dagli occidentali dall’inizio della crisi siriana, sancendo altresì la vittoria diplomatica di Assad, del Cremlino e di Teheran.

La vittoria di una battaglia personale di Trump contro determinati circoli di potere non significa però l’abbandono, da parte degli USA, di una politica imperialista. Nota infatti acutamente Mauro Bottarelli su Business Insider che l’amministrazione guidata dal magnate rivolgerà ora le attenzioni al cortile di casa degli Stati Uniti: l’America latina, dove invece le cose per Washington sembrano andare decisamente meglio rispetto al Medio Oriente, con la vittoria in Brasile di Jair Bolsonaro (fresco di gita in Israele dove ha promesso, sulle orme di Trump, lo spostamento dell’ambasciata brasiliana a Gerusalemme), che ha seguito di due anni quella argentina di Mauricio Macri, senza dimenticare la Colombia. Le destre liberiste e filo-atlantiche, insomma, saranno il perno per proseguire quello che Bottarelli correttamente identifica come il piano Cebrowski-Barnett, di cui ha compiutamente parlato anche il ricercatore francese Thierry Meyssan: si tratta, in estrema sintesi, di un piano che sosteneva la destabilizzazione di quei Paesi magari ricchi di risorse, ma soprattutto non integrabili all’interno del sistema liberal-capitalista globale. Una lista che, oltre alla Siria, alla Libia, all’Iraq e all’Iran includeva dal principio (si parla dei primi anni 2000) anche il Venezuela bolivariano, la Cuba castrista e, dal 2007, il Nicaragua di Ortega. Una triade di nazioni recentemente definite la “troika della tirannia” dal Consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Bolton. Fallito (solo in parte, in realtà) il tentativo in Medio Oriente, attuato con il coinvolgimento, nel tempo, dei Fratelli Musulmani e di vari gruppi jihadisti, è chiaro che ora l’inquilino dello “studio ovale” dovrà concentrarsi sull’America Latina.

GLI USA SPOSTANO LO SCONTRO VERSO LA CINA

Tale strategia non prelude ovviamente soltanto a una necessità americana di ridimensionare la propria presenza a livello internazionale ma anche a un più diretto scontro, più che con la Federazione Russa, con l’altra testa dell’aquila bicipite eurasiatica: la Cina, che peraltro proprio in Sud America ha diversi interessi finanziari. A spiegare che il cambio di strategia sia dovuto a questo è stato direttamente anche l’ex chief strategist della Casa Bianca, Steven Bannon, senza troppi giri di parole. E non a caso Mike Pompeo, altro falco di Trump, ha acclamato il neo presidente brasiliano Bolsonaro come un combattente per la “libertàcontro la Cina e il modello socialista di (ancora) Cuba, Nicaragua e Venezuela…

Dunque, se il 2018 chiude per certi aspetti una fase dell’eterna Guerra Fredda tra Mosca e Washington (anche se bisognerà continuare a tenere d’occhio l’Ucraina…), il 2019 ne apre una nuova tra Stati Uniti e Pechino,  che si inserisce nel contesto delle difficili trattative per porre fine alla “guerra commerciale”. Il quadro, comunque, non muta, perché al centro c’è sempre il perenne contrasto tra Eurasia e Occidente, di cui si è già avuto modo di parlare su questo blog.

Nonostante le apparenze, insomma, il mondo che entra nell’anno nuovo si trova ancora in una situazione di equilibrio precario. E la tendenza, inaugurata dagli USA, ad abbandonare il multilateralismo (l’ultimo esempio è forse l’addio dato dal Giappone all’IWC, l’organo di controllo sulla caccia alla balene) è destinata a portare il pianeta e i rapporti di forza tra Stati su un terreno decisamente inesplorato. E, proprio per questo, pericoloso.

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