Dalla Bolivia all’Iran: quelle crisi che investono i nemici degli USA
Mentre nella Bolivia ricca di litio e legata da accordi economici e commerciali con la russa Rosatom, tra malcelate manifestazioni di soddisfazione da parte della diplomazia statunitense, è pienamente riuscito il golpe di fatto che ha spodestato il presidente eletto Evo Morales, di cui perfino l’Economist, organo di stampa certamente non ascrivibile all’elenco dei media simpatizzanti con il mondo del socialismo sudamericano, ha scritto che “a differenza di altri leader latino americani con tendenze all’autoritarismo (…) ha dominato il suo paese più con il consenso che con la coercizione”, un golpe che, peraltro, dopo le proteste degli indigeni e la violenta repressione della polizia ha mostrato come la campagna “popolare” anti-Morales non godesse poi di una base così ampia, come illustrato invece dai media occidentali, in Iran, sono giorni di elevata tensione politica, con lo scoppio di violente proteste, che si aggiungono a quelle che sono andate in scena in altri Paesi a forte influenza iraniana, come l’Iraq e il Libano.
Il motivo del contendere è stata la decisione, da parte del Governo di Hassan Rouhani, di aumentare del 50 per cento del prezzo di un bene di prima necessità come la benzina. Il costo al litro è salito infatti a 15mila rial (pari a circa 10 centesimi di euro) dai 10mila precedenti, mentre per ogni automobile privata il razionamento ha visto l’imposizione di una quota massima di 60 litri, superata la quale il prezzo per litro sale a 30mila rial.
Tale rincaro è avvenuto a causa di una riduzione dei sussidi statali. La scelta dell’esecutivo, secondo Rouhani diventata inevitabile per sostenere le “famiglie a entrate medie e basse che soffrono della situazione creata dalle sanzioni” americane, è stata appoggiata dalla guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. “Non sono un esperto – ha detto – ma se queste decisioni vengono prese dai vertici delle istituzioni, io le sostengo”. E proprio nuove sanzioni USA sono state introdotte dopo l’annuncio, da parte dell’esecutivo iraniano, di aver oltrepassato di 200 chili la quota di uranio arricchito prevista dal JCPOA, l’accordo nucleare siglato nel 2015 e che ha visto, dopo l’elezione di Donald Trump, l’uscita unilaterale da parte degli Stati Uniti. Bisogna notare che, comunque, al momento, si tratta di mere provocazioni: il JCPOA consente all’Iran di arricchire l’uranio fino a un limite del 3,67%, necessario per le attività pacifiche, ora salito al 4,5%, mentre, prima dell’intesa, si era raggiunta la quota del 20%. Per costruire un ordigno nucleare sarebbe necessario il 90%.
Comunque sia, il Governo iraniano, subito dopo l’annuncio degli aumenti, ha stanziato sussidi per 60 milioni di persone in difficoltà economiche, con fondi derivanti proprio dai rincari. Ma qual è l’origine delle proteste? Pare significativo, politicamente, che, oltre a prendersela con le immagini dell’ayatollah, i manifestanti abbiano messo nel mirino il sostegno iraniano alla causa palestinese e alle milizie sciite libanesi di Hezbollah.
Bolivia, Iraq, Libano, Iran, Hong Kong, Venezuela. Le proteste che, da una parte all’altra del mondo, stanno esplodendo stanno curiosamente tutte investendo nazioni considerate nemiche o critiche dall’establishment atlantico. E, in quasi tutti questi casi la posizione americana è stata di supporto alla causa dei manifestanti, tanto che il Ministero degli Esteri di Teheran ha protestato con una nota formale contro il “sostegno” dagli Stati Uniti “a un gruppo di rivoltosi”.
Chiaro che non si debba scadere in facili complottismi e mantenere una certa lucidità d’analisi. Eppure risuonano, sempre più cupe, le voci di quel piano “Cebrowski-Barnett”, più volte denunciato dal giornalista e ricercatore francese Thierry Meyssan, secondo cui l’elite al comando a Washington desidererebbe, da ormai quasi un ventennio, distruggere o indebolire le strutture statali di tutti quei Paesi che sono ricchi di risorse ma non integrati nella sfera di influenza del capitalismo atlantico.