La geopolitica del futuro? È quella del litio
Quando si tratta di politica internazionale e, soprattutto, di geopolitica si è abituati a collegare le crisi che sorgono in questo o in quel Paese, con l’inevitabile lotta per il controllo delle fonti di materie prime, in particolare il petrolio o il gas. Eppure, visto lo sviluppo della mobilità elettrica, c’è un’altra commodity che è da ritenersi strategica per le politiche di sviluppo delle grandi potenze mondiali. Si tratta chiaramente del litio, con il quale vengono realizzate le batterie ricaricabili delle automobili “green”, ma anche degli utilizzatissimi smartphone.
Un metallo la cui domanda è sempre più elevata negli Stati Uniti, in Cina, ma anche in Europa. E che, con il tempo e vista anche la spinta culturale verso l’energia e la mobilità cosiddetta pulita, è destinata a crescere. Controllare le fonti di litio, nel futuro, potrebbe equivalere al controllo dei pozzi petroliferi. Un interessante articolo al riguardo è stato pubblicato pochi giorni fa dal sito del think tank Centre for Research on Globalization, a firma di F. William Engdahl, consulente e docente di rischio strategico e collaboratore del “New Eastern Outlook“, da cui il testo è stato ripreso.
Un testo che spiega, per esempio, come “per la Cina, che ha fissato importanti obiettivi per diventare il più grande produttore mondiale di veicoli elettrici, lo sviluppo di materiali per batterie al litio è una delle priorità per il tredicesimo piano quinquennale (2016-2020). Sebbene la Cina abbia le proprie riserve di litio, il recupero è limitato e la Cina è interessata a garantirsi i diritti di estrazione di questo minerale anche all’estero”. E così, in Australia, “la società cinese Talison Lithium (…) estrae e possiede le riserve di spodumene più grandi (…)nell’Australia occidentale vicino a Perth. La Talison Lithium Inc. è il più grande produttore di litio primario al mondo. Il sito (…) in Australia produce oggi circa il 75% della domanda cinese di litio e circa il 40% della domanda mondiale”.
Anche in Cile, spiega Engdahl, i cinesi stanno acquisendo una quota importante della Sociedad Quimica Y Minera, uno dei maggiori produttori mondiali di litio. Un minerale, questo, che è presente in pochi stati al mondo. Uno di questi, oltre a quelli sopra citati, è la Bolivia, teatro del recente colpo di Stato che ha visto la caduta del presidente indigeno Evo Morales. Curiosamente, come illustra ancora l’autore dell’articolo sopra menzionato “dal 2015 una società mineraria cinese, la CAMC Engineering Company, ha gestito un grande impianto in Bolivia per produrre cloruro di potassio come fertilizzante. Ciò che CAMC minimizza è il fatto che al di sotto del cloruro di potassio si trovano le più grandi riserve di litio conosciute al mondo, nelle saline di Salar de Uyuni. Si tratta di una delle 22 saline con queste caratteristiche in Bolivia. Nel 2014 la cinese Linyi Dake Trade ha infatti costruito un impianto pilota per batterie al litio nello stesso sito. Quindi, nel febbraio 2019, il governo Morales ha firmato un altro accordo per il litio, con la cinese Xinjiang TBEA Group Co. Ltd, che deterrà una partecipazione del 49% in una joint venture con la società statale boliviana YLB. L’accordo, dal valore di circa 2,3 miliardi di dollari, è per produrre litio e altri materiali dalle saline di Coipasa e PastosGrandes”.
Secondo Goldman Sachs la Cina potrebbe, entro un decennio, fornire il 60% del fabbisogno globale di litio per i veicoli elettrici.
Considerando che il primo rivale di Pechino, in questa strategia, sono gli Stati Uniti, le proteste esplose in Bolivia ma anche in un Paese tradizionalmente considerato allineato alle politiche americane, come il Cile, assumono un’altra dimensione.
Perché, se in Medio Oriente si continua a lottare per le risorse energetiche del presente e del passato, dall’America Latina passa la lotta per le risorse del futuro.