BLM e Trump: il ruolo cosmetico della destra nell’ordine mondiale liberale
Dai giganti dell’economia e dello spettacolo alla Formula 1, tutto il “bel mondo” si mette “in ginocchio”, in senso figurato ma talvolta anche letterale, per Black Lives Matter, il movimento di protesta nato in seguito alla morte dell’afroamericano George Floyd, assassinato da un agente di polizia a Minneapolis. Movimento che ha portato, in tutto il pianeta ma precipuamente negli Stati Uniti d’America, a violente proteste accompagnate, addirittura, dalla vandalizzazione quando non dalla rimozione di statue di personalità ritenute, a vario titolo, “razziste”: da Cristoforo Colombo al presidente USA Andrew Jackson, da Winston Churchill all’italianissimo Indro Montanelli, in un crescendo di furia distruttiva e iconoclasta.
Una furia, quella degli ultras del politicamente corretto di ogni angolo del globo (la cui causa piace alle multinazionali, subito pronte a pagare “tributo” con la cancellazione di storici marchi “discriminatori”) che ha in molti casi ricordato quella del fanatismo jihadista alle prese con la distruzione delle tracce del passato in Afghanistan, in Iraq e in Siria. Non contenti di un “progresso” per loro ineludibile nel futuro, questi movimenti sembrerebbero ora concentrati sulla riscrittura del passato, a completamento di un processo palingenetico destinato a conformare il mondo ai dogmi dell’ideologia radical-progressista. Alcuni osservatori sorridono di fronte a queste istanze. Sbagliando. Perché, citando George Orwell in 1984, “chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato”.
Ma chi sono, quindi, i sostenitori di BLM? E cosa vogliono davvero? Per rispondere può servire una “passeggiata” virtuale sul sito del National Endowment for Democracy. Di cosa si tratta? Il NED è, a tutti gli effetti, una “organizzazione quasi non governativa” (in gergo “QANGO”), un ente cioè varato per legge Congresso statunitense nel 1983 e supportato da entrambi gli schieramenti politici USA (democratici e repubblicani) che si pone lo scopo di promuovere la “democrazia” e la libertà nel mondo. Vale a dire che il NED è uno dei principali strumenti del soft power geopolitico americano, avendo negli anni sostenuto, grazie a finanziamenti derivanti in maggior parte dalla U.S. Agency for International Development-USAID (la medesima che in anni recenti ha finanziato, tra le altre cose, le ricerche sui coronavirus nel laboratorio di Wuhan), attivisti di opposizione rispetto ai governi dei Paesi non allineati all’ordine mondiale liberale degli USA.
Alcuni esempi? Negli anni recenti il NED ha premiato con il suo “Democracy Award” le cause: dei musulmani uiguri dello Xinjiang cinese, in perenne scontro con il Governo di Pechino; degli indipendentisti anti-cinesi del Tibet; dei “prigionieri politici” del Venezuela; degli attivisti anti-Putin in Russia; degli attivisti anti-governativi in Iran.
Insomma, il NED, sostanzialmente e godendo di un supporto bipartisan, è uno strumento del famigerato “Deep State” americano. Appare dunque curioso come un simile ente, legato a doppio filo alle istituzioni statunitensi, possa aver vergato un comunicato ufficiale di supporto alle istanze di BLM, movimento che ha provocato disordini e atti vandalici in tutta l’America.
Ecco che, forse, proprio questo è un segnale utile a comprendere quale possa essere la reale origine delle proteste. Che, peraltro, sono apparse dal primo momento una replica di quelle “rivoluzioni colorate” che il NED e organismi similari hanno spesso sostenuto in maniera più o meno esplicita negli ultimi anni. Contraddicendo tuttavia chi vede in questa situazione il tentativo di scardinare con una sorta di coup d’etat il presidente Trump, l’impressione, sempre più forte, è che si stia assistendo invece a uno scontro, in un contesto di pre-campagna elettorale, al vertice dell’establishment statunitense, tra due fazioni dello stesso, portatrici di altrettante e parzialmente contrastanti visioni che però hanno, in fondo, il medesimo obiettivo: quello di preservare la costruzione dell’ordine mondiale liberale.
La prima, quella più “tradizionale”, orientata verso l’edificazione di un impero globalista senza confini e sostanzialmente disinteressata delle sorti dell’economia interna dell’entità statuale americana, si muove attraverso un complesso intreccio tra la tecno-finanza mondiale e il potere emergente del “capitalismo fiscale di sorveglianza” della new economy, intreccio che trova i propri principali portavoce politici nel sistema liberal e progressista e, cioè, nel Partito Democratico. Non è in fondo un caso che i principali magnati dell’hi-tech, incluso quel Bill Gates sostenitore del vaccino contro il Covid-19 e di quell’OMS – Organizzazione Mondiale della Sanità che ogni giorno emette comunicati dal tono allarmistico sulla pandemia da Coronavirus, pandemia che ha contribuito soprattutto ad allargare il divario sociale tra i super-ricchi e il resto del pianeta, numerosi siano i sostenitori degli avversari dell’attuale inquilino della Casa Bianca, Donald Trump.
Il quale, però e a scanso di equivoci, non è certamente un “anti-sistema”, quanto piuttosto l’improvvisato (e per certi versi inatteso) rappresentante di quella parte di elite statunitense inquadrabile in una cornice di nuovo neo-conservatorismo, che mira a ristabilire, con una diplomazia aggressiva portata avanti attraverso lo smantellamento delle strutture di concertazione multi-laterale, il primato degli Stati Uniti-nazione nel contesto globale, includendo in questo processo una ricollocamento del sistema produttivo dell’”impero” sul suolo patrio.
Efficace è la descrizione di questa dinamica rilasciata dal direttore della rivista di studi geopolitici Eurasia, Claudio Mutti, in un’intervista al magazine serbo Pečat. “Non mi sembra – ha detto a proposito delle proteste il professore – un conflitto di razza, poiché nelle immagini delle manifestazioni di protesta si vede una maggioranza di bianchi. È verosimile, a mio parere, che si tratti sostanzialmente di una campagna preelettorale a favore del Partito Democratico, non del preludio di una guerra civile etnica. Insomma, mi sembra un fenomeno inquadrabile nella dialettica tra le due tendenze interne al potere statunitense: da una parte gli ambienti che si identificano col processo di globalizzazione finanziaria, dall’altra la posizione rappresentata dal trumpismo, che invece è favorevole alla rilocalizzazione delle imprese”.
Ad ogni buon conto tale situazione, che vede ora Trump rivestire il ruolo dello scomodo antagonista nel teatrino “hollywoodiano” della politica a stelle e strisce, rivela quale possa essere, in America come in qualsiasi altro attore statuale minore inglobato nell’ordine mondiale liberale americano-centrico, il ruolo assegnato alla destra politica istituzionale: quello di un ostacolo meramente cosmetico (ma funzionale alla tenuta della credibilità dei “ludi cartacei” elettorali) alla realizzazione di “magnifiche sorti e progressive” che, attraverso il sistema dialettico della democrazia parlamentare, semplicemente non possono essere evitate.