Sviluppatosi a partire dall’età moderna, quello del progresso è certamente uno dei miti fondanti della nostra civiltà. Le diverse rivoluzioni industriali che l’umanità ha sperimentato dal XVIII secolo in avanti e, successivamente, l’oggettivo e splendente periodo di crescita economica e sociale che in Occidente ha fatto seguito al secondo conflitto mondiale hanno senza dubbio fornito ottimi argomenti a questa mitologia. L’idea di uno sviluppo lineare e inarrestabile della storia umana verso “magnifiche sorti e progressive”, in cui il passato viene considerato prevalentemente (oggi esclusivamente) come negazione (di conoscenza, di diritti, di cultura tecnica) e riscattabile soltanto da una continua proiezione verso un futuro sempre più luminoso è, con il tempo, entrata a far parte del sentire comune dell’uomo occidentale.

Lo ha fatto a tal punto che neppure le diverse crisi che si sono susseguite senza posa dalla fine dello scorso millenio (finanziarie, economiche, sanitarie e geopolitiche) e che hanno stravolto le prospettive di vita per i più hanno potuto scalfirla. Anzi, proprio nello scontro con un’evidenza empirica che minaccia di mettere in dubbio i connotati esclusivamente positivi che gli erano stati attribuiti, il progresso ha oggi lasciato i panni del mito per tramutarsi in fede. Nella parodia di una religione, veicolata da un’industria mediatica e culturale onnipervasiva e tristemente ridotta a grancassa di potenti circoli elitari. Così, chiunque osi porsi dei dubbi sui percorsi recentemente intrapresi dalla razza homo sapiens, soprattutto nel suo rapporto con la tecnica (ma non solo), rischia di essere messo all’indice. “Se una cosa diventa possibile, è anche desiderabile“, sembra essere il pensiero prevalente all’interno della cultura egemone. E non importa se, per fare un esempio, l’intelligenza artificiale rischia di spazzare via (come ha recentemente ammesso, pur condendo la “profezia” con poco plausibili risvolti idilliaci, il patron di Tesla Elon Musk) e lasciare privi di uno scopo milioni di lavoratori. Non importa se gli elementi costitutivi dell’identità di un individuo, come il sesso (degradato a “genere”), siano considerati ormai dei semplici costrutti e, come tali, ripudiabili e rimovibili (chirurgicamente o anche, più semplicemente, con un tratto di penna e un’autodichiarazione). Si tratta sempre e comunque di “progresso” e quindi, come tale, non si può mettere in dubbio. Chiunque lo facesse si esporrebbe automaticamente all’accusa di essere “retrogrado”, “non al passo con i tempi” e via proseguendo di luoghi comuni portatori di uno stigma difficilmente sostenibile.

Non stupisce, perciò, che in tale contesto, a fronte di un coro diffuso (abbondano, per esempio, tra i politici cosiddetti “conservatori”) di pavidi “critici moderati” che, pur disapprovando interiormente le derive più estreme di certo “progressismo”,  posseduti dal terrore della riprovazione sociale non osano spingersi oltre timide osservazioni, poche siano le voci che si azzardano a sollevare obiezioni di tipo radicale, respingendo non le singole convinzioni ma l’intero paradigma. Tra queste, nel nostro Paese, può essere annoverato il valido Gianluca Marletta. Romano, laureato in Storia medievale all’Università di Roma Tre e in Scienze religiose alla Pontificia Università Lateranense, saggista già autore, tra gli altri, di un volume intitolato “L’ultima religione” (scritto a quattro mani con Paolo Gulisano nel 2020 per Historica Edizioni), ha ultimamente apposto la sua firma su un testo dal titolo “Transumanesimo. Maschera e volto della post-umanità”, edito da Cinabro Edizioni. Il libro, che vede la prefazione di Enrica Perucchietti e un saggio introduttivo di Enzo Pennetta, indaga, per l’appunto, quella che è ormai l’ideologia di un mondo terminale. Il nostro mondo. Quello in cui la (pur giusta) tensione verso un progressivo miglioramento delle condizioni di vita attraverso la tecnica e la conoscenza si è, in tempi relativamente recenti, tramutata e rovesciata nell’aspirazione sulfurea e luciferina di superamento e, forse, di una distruzione dell’uomo biologico e della sua natura più profonda, anche interiore: il transumanesimo.

Questa visione del mondo, tuttavia, in questo testo non è solo analizzata (e pure finemente) nelle sue origini e nei suoi più traumatici risvolti (in svariati ambiti: dall’animalismo radicale al gender, dall’ambientalismo estremista ai movimenti child free, dal dogma della digitalizzazione fino al mito dell’intelligenza artificiale). A differenza di quanto avviene in altri volumi di argomento similare, infatti, Marletta prova anche a indicare un antidoto al veleno: la via che passa del recupero di un’antropologia spirituale delle grandi tradizioni. Non una via semplice, questo è chiaro, ma anche quella che, forse, è l’unica percorribile perché l’umanità non cada, nel volgere di breve tempo, dritta in un burrone.

 

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