Rivolta: “Il Cav aveva capito che Francia e Germania ci escludevano. Trump? Ecco cosa vuole”
Classe 1952, forzista della primissima ora (è stato responsabile Esteri) e deputato per tre legislature (dal 1996 al 2008, eletto in quella Brianza dove risiedeva un certo Silvio Berlusconi, sul quale ha scritto una intervista-biografia con Eric Jozsef, recentemente rinnovata e ripubblicata per i tipi di FAS Editore. Del Cavaliere fu anche capo dello staff in Fininvest, dove ha lavorato dal 1984 al 1991), membro della Commissione permanente Affari esteri e comunitari, di cui fu vicepresidente, Dario Rivolta ha iniziato a occuparsi di questioni internazionali ben prima della sua lunga avventura politica. Per anni, infatti, si è occupato di export, mercati internazionali e geopolitica in diversi ruoli in ambito privato, pubblico e associativo. È stato visiting professor di Politica internazionale nelle università Bicocca di Milano e alla IESEG di Parigi e analista di geopolitica per svariate pubblicazioni. In una fase internazionale turbolenta e complessa, ci rivolgiamo a lui per capire quali conseguenze potrà avere, per l’Italia, la recente visita della premier Giorgia Meloni a Washington, ma non solo.
Alla luce della sua lunga esperienza, come legge il recente viaggio della presidente del Consiglio alla Casa Bianca?
“A Giorgia Meloni è ben chiaro che l’Italia non può permettersi né di allontanarsi dall’Europa né di farlo con gli Stati Uniti. L’Unione Europea è il nostro primo mercato di esportazione e gli Stati Uniti sono attualmente il secondo. Dazi doganali di Trump permettendo, il nostro surplus commerciale con gli USA è attualmente di circa 40 miliardi di dollari mentre la sola Unione Europea rappresenta più del 51% di tutto il nostro export. Dal punto di vista economico se il nostro Pese non facesse parte dell’Unione in un mondo globalizzato saremmo soltanto un pesce piccolissimo, con ciò che ne conseguirebbe. È pur vero che la stessa Unione, mancando di unità politica, non conta molto politicamente, ma esserne fuori sarebbe ancora peggio. Degli Stati Uniti è bene ricordare che, volenti o nolenti, essi sono, attualmente e tramite la NATO, la nostra unica e vera forza di difesa possibile. Detto ciò, viste le difficoltà politiche che Germania e Francia incontrano attualmente è ovvio che noi italiani si cerchi di sopperirvi rioccupando un protagonismo che negli ultimi anni si era totalmente oscurato. Da qui il viaggio della Meloni che, non lo si può negare, è stato un successo politico e soprattutto di immagine. Quanto alle conseguenze economiche per noi e per l’Unione Europea è ancora tutto da vedere”.
Avendolo conosciuto da molto vicino, si possono intravedere delle linee di continuità tra quella che era la politica estera di Silvio Berlusconi e quella dell’attuale governo di centrodestra? In molti hanno posto l’accento sulle differenze emerse, quando il Cavaliere era ancora in vita, in merito alla questione ucraina.
“Berlusconi aveva capito che l’abbraccio Francia-Germania tendeva a escluderci o farci giocare un ruolo secondario. Per questo si è avvicinato alla Gran Bretagna e, contemporaneamente, alla Russia e agli USA. Anche grazie alla sua capacità di intessere buoni rapporti personali con Bush e Putin l’operazione gli riuscì, suscitando tuttavia il risentimento di Parigi e Berlino che non gradivano il protagonismo dell’Italia. Il cambio di presidente negli Stati Uniti, l’azione congiunta di francesi e tedeschi e la guerra continua contro Berlusconi fatta dalle sinistre italiane ed europee hanno dato poi inizio alle sue difficoltà. Considerato che alcune condizioni geopolitiche sono mutate, il Governo Meloni cerca di perseguire la politica di Berlusconi con i necessari cambiamenti che tengono conto dei nuovi equilibri. Quanto alla guerra in Ucraina Berlusconi, a mio giudizio, aveva ragione quando si è espresso come si sa, ma per non fare la fine di Berlusconi, Meloni e la sua maggioranza hanno deciso di appoggiare la guerra dell’Occidente contro la Russia. Molti politologi sono portati a pensare che, se avesse avuto un atteggiamento differente, sarebbe stato improbabile vederla ancora lì come presidente del Consiglio”.
Inevitabile parlare di Trump. Dai dazi annunciati e poi sospesi fino alla stessa Ucraina, sembra che la posizione della sua amministrazione e quella degli alleati più tradizionali degli USA, a volte, sia difficilmente conciliabile. A cosa sta puntando realmente il presidente americano con queste mosse?
“Come ho già avuto modo di affermare e scrivere, credo che gli obiettivi di Trump siano due, pur legati tra loro, uno economico e l’altro politico. Occorre partire dal fatto che la bilancia commerciale degli USA è da qualche decennio fortemente deficitaria e il disavanzo sta aumentando vertiginosamente. Con la minaccia (in parte già esecutiva su alcuni prodotti) di un aumento dei dazi Trump punta ad obbligare i Paesi con un surplus nel loro commercio con gli USA a riequilibrare gli scambi. In altre parole, o ci si mette d’accordo nell’aumentare le importazioni dagli Stati Uniti o le esportazioni di quei Paesi saranno penalizzate da alti tassi doganali che li renderanno non più competitivi verso la produzione locale. Dal punto di vista politico le cose sono molto più pericolose per noi europei. Nel suo primo mandato aveva sposata la politica tradizionale americana del dopo guerra fredda e cioè, utilizzando il racconto di una lotta contro le potenze autocratiche per garantire la sicurezza delle democrazie, aveva cercato di agire per impedire che la supremazia americana nel mondo fosse insidiata da potenze considerate ‘aggressive’ quali la Russia e la Cina. In questo secondo mandato ha cambiato rotta e ora ha deciso di convincerle a lavorare con lui per gestire l’ordine internazionale. È possibile che si sia reso conto, a torto o a ragione, che la prima impostazione non sarebbe stata vincente e che ciò che serve adesso sarebbe una nuova Yalta. Non è un caso che dopo la sua telefonata con Putin riferì: ‘…Ognuno di noi ha parlato dei punti di forza delle nostre rispettive nazioni e del grande beneficio che un giorno avremo nel lavorare insieme’. Il suo inviato speciale a Mosca, Witkoff, è stato anche più preciso: ‘…Condividere le rotte marittime, forse inviare gas in Europa insieme, forse collaborare insieme sull’intelligenza artificiale’. Nel disegno di Trump, una volta ottenuto un accordo con Mosca, il prossimo passo sarà di fare la stessa cosa con la Cina. In altre parole, l’obiettivo è di creare un nuovo ordine mondiale guidato dalle tre grandi potenze sulla base dei comuni interessi di lotta contro i “nemici interni”: immigrati clandestini, terroristi islamici, progressisti vari, filosofie gender e woke. E, naturalmente, la garanzia reciproca che ognuno farà ciò che vuole nelle rispettive aree d’influenza. E i piccoli Paesi? E l’Europa? Dovranno accettare ciò che decidono i ‘grandi’, mancando ai ‘piccoli’ la forza di avere una voce che riesca a farsi sentire. È ovvio che il mondo, così interconnesso e con nuove realtà economiche importanti, non è più quello del dopoguerra e la riuscita del progetto di Trump è tutt’altro che garantita”.
Come si inserisce, in tale contesto, la lenta ma apparentemente progressiva de-dollarizzazione degli scambi globali?
“La dollarizzazione dell’economia globale è ciò che ha consentito fino ad oggi agli Stati Uniti di continuare a stampare valuta senza subire gli effetti inflattivi di un eccesso di moneta circolante. La conseguenza più immediata è che, nonostante un debito pubblico enorme, i Buoni del Tesoro americani continuano a essere richiesti sul mercato internazionale. Oltre a ciò, il controllo sul meccanismo mondiale interbancario SWIFT consente a Washington di consentire, o negare, a qualunque Paese di effettuare pagamenti interstatali senza l’accordo americano. Come si è visto, questa facoltà è molto applicata nel caso di sanzioni verso Paesi considerati ‘nemici’. È per reagire a queste situazioni che, da almeno qualche decennio, alcuni Stati stanno cercando di superare l’uso del dollaro come valuta usata negli scambi e hanno cominciato a creare un meccanismo alternativo allo SWIFT. In realtà, alcuni scambi tra certi Paesi oggi sono effettuati con pagamenti nelle valute locali e perfino l’Arabia Saudita ha accettato di vendere il proprio petrolio alla Cina in cambio della valuta cinese. Contemporaneamente, gli stessi cinesi e i russi stanno facendo esperimenti con una propria valuta digitale ancorata rispettivamente allo Yuan e al Rublo. Tuttavia, nonostante il valore degli scambi internazionali pagati in dollari sia in diminuzione, il dollaro continua e continuerà ancora per diversi anni a rimanere la valuta dominante. Ciò perché nessuna altra valuta è considerata sufficientemente ‘sicura’ (o negoziabile liberamente) e anche un ‘paniere di monete’ a cui si è pensato come riferimento alternativo non sembra godere di credibilità diffusa. C’è poi da considerare che se il dollaro smettesse di essere così dominante com’è ora, ciò implicherebbe una sua veloce svalutazione e questo nuocerebbe soprattutto a quei Paesi che hanno acquistato enormi quantità di BOT americani. Tra questi proprio la Cina che è il secondo detentore mondiale dopo il Giappone di tali titoli. Paradossalmente, poiché gli investimenti esteri delle aziende a stelle e strisce sono superiori agli investimenti stranieri negli USA, un dollaro molto debole penalizzerebbe chi ha investito negli USA e premierebbe proprio gli americani che hanno investito all’estero poiché vedrebbero rivalutarsi il loro investimento”.
L’Unione Europea, come anticipato, ha assunto una postura piuttosto conflittuale. Solo questioni politico-ideologiche (“sovranismo” contro “globalismo”, come direbbero i sostenitori del movimento MAGA) oppure c’è dell’altro? E quale può essere il ruolo della Gran Bretagna che, con la Francia, ha “benedetto” la cosiddetta “Coalizione dei volenterosi”?
“Francia e Gran Bretagna si sentono i maggiori sconfitti dal nuovo atteggiamento dell’Amministrazione americana e questo spiega il loro atteggiamento fortemente conflittuale. Sull’Ucraina è chiaro che un accordo diretto tra Putin e Trump, magari anche economico, renderebbe del tutto ininfluenti e insignificanti i due Paesi e l’Europa intera. Anche chi si aspettava di poter partecipare alla torta della ricostruzione del dopo-guerra non potrà che accontentarsi delle briciole, e forse nemmeno di quelle. A ciò si aggiunge che quei paesi europei che vantano un attuale surplus commerciale con gli USA potranno essere pesantemente colpiti nelle proprie economie dall’entrata in vigore di dazi doganali penalizzanti. Detto ciò, l’idea di inviare truppe europee in Ucraina durante la guerra in corso o è un semplice bluff o un atto molto pericoloso che potrebbe davvero condurci verso una nuova guerra mondiale”.
Torniamo all’Italia e guardiamo avanti di qualche decina d’anni: alla luce di quello che ci siamo detti, quale deve essere la nostra strategia geopolitica per garantirci un futuro in un mondo che vive una fase di enormi scossoni?
“Se dovessi rispondere sulla base di cosa mi piacerebbe si facesse direi che mi piacerebbe che nei Paesi più importanti dell’Europa ci fossero dei leader lungimiranti e coraggiosi che ci sappiano portare verso una vera Unione politica organizzata su basi democratiche. Occorrerebbero ancora dei De Gasperi, degli Schumann, degli Adenauer. Oppure anche soltanto dei Delors o Giscard d’Estaing o Helmut Schmidt. Purtroppo, ci troviamo dei politici che non sanno guardare al domani e non hanno il coraggio di rompere gli schemi entro i quali si sono formati e sono cresciuti politicamente. Tutti sono soltanto dei piccoli ‘sovranisti’ da strapazzo. Anche Macron, che appena eletto fece un discorso bellissimo e lungimirante sul necessario sviluppo dell’Europa verso un futuro di forte unità, ha totalmente cambiato strada ed è tornato ad essere un piccolo chauvin francese. Occorre però dire che di fronte a lui c’era una ‘piccolissima’ Merkel che pensava semplicemente alla sua popolarità immediata e, invece di immaginare una Germania europea, si limitava ad auspicare una Europa tedesca. Come poi ha lasciato la Germania lo stiamo vedendo ora. Visto che la situazione è questa, credo che faccia bene la Meloni a mantenere quel poco di Europa commerciale che esiste e stringere il più possibile rapporti bilaterali con gli USA e con altri Paesi, come l’India e la Turchia, che sono almeno una potenzialità per le nostre aziende esportatrici. Purtroppo, se l’Europa non diventerà una realtà politica oltre che economica, non vedo un buon futuro, non solo per il nostro peso nel mondo che andrà certamente diminuendo, ma anche per il futuro stesso dell’attuale Unione. Infatti, con il calare del ruolo economico e politico internazionale del nostro continente, si andranno accentuando gli egoismi nazionali e non escludo nemmeno qualche deleterio passo indietro di ciò che si era andato costruendo in Europa dagli anni Cinquanta a oggi”.