Si terranno sabato 26 aprile, a Roma, i funerali di papa Francesco. E, mentre migliaia di fedeli, a turno, si recano a omaggiare la salma del pontefice argentino nella basilica di San Pietro (dove il Santo Padre non sarà sepolto), viene spontaneo chiedersi che cosa abbia significato, almeno da un punto di vista politico (la teologia non è di certo materia per questo modesto spazio di pensiero), per la Chiesa e non solo, un pontificato durato “appena” 12 anni ma che ha attraversato una serie inimmaginabile di tempeste: dal conflitto civile siriano alla crisi dei migranti, dalla catastrofe economica e finanziaria dei primi anni Dieci del Duemila alla pandemia, dai cambiamenti climatici alle guerre, su tutte quella russo-ucraina e quella mediorientale. Senza dimenticare che Jorge Mario Bergoglio ascese al soglio pontificio dopo le sconvolgenti dimissioni del suo predecessore, Benedetto XVI.

Di Francesco tanto si è detto e tanto si è scritto, da quando, per la prima volta, si affacciò dalla Loggia di San Pietro.  Da chi (soprattutto all’inizio) lo ha apostrofato senza mezzi termini per le aperture progressiste, come quelle verso divorziati risposati e comunità Lgbt (non sono mancati all’appello i prelati più conservatori, eclatante il caso dell’ex nunzio apostolico negli Usa, monsignor Carlo Maria Viganò, scomunicato) a chi, invece, ne ha esaltato la figura come icona umana. Troppo umana, a volte. Anche se la sua vicinanza agli ultimi, sebbene abbia assunto talvolta connotati coloriti e vissuti, da diversi osservatori, come eccessivamente “esuberanti” (soprattutto nel caso dei migranti, dove è sempre riecheggiato il confronto con il “diritto a non emigrare” di Benedetto XVI), guardandola a posteriori può essere integralmente ascritta al messaggio cristiano e a null’altro.

C’è poi chi, addirittura, ha visto in lui un simbolo del globalismo e del cosiddetto “pensiero unico”. La verità, come spesso accade, è però più complessa di quella che si può dedurre applicando la semplice dicotomia (molto “occidentalo-centrica”, tra l’altro) tra conservatori e progressisti. O quella, ancora più rozza, tra “sovranisti” e “globalisti”. Francesco, che indubbiamente ha goduto del plauso del gotha del liberal-progressismo laico occidentale e vi ha spesso ammiccato (e questo è un fatto innegabile), è stato, anche e soprattutto, il papa dell’avvento del multipolarismo e della conseguente “guerra mondiale a pezzi“, da lui stesso evocata in svariate occasioni. Un papa che, davanti a un mondo in forte trasformazione, non si è tirato indietro quando c’è stato il bisogno di prese di posizione forti. L’ultima, in ordine di tempo, è forse stata quella sull’Ucraina, quando parlò, senza mezzi termini, della necessità di una bandiera bianca.

Un parere che, tra gli altri, va certamente tenuto in considerazione, è quello dell’autorevole studioso e storico di cose latinoamericane Loris Zanatta, che, in un’intervista all’agenzia Dire.it, ha descritto Bergoglio come “populista”. Un termine che, ha precisato il professore, non va inteso “come marchio per stigmatizzare o esaltare, bensì come concetto“. Bergoglio, per Zanatta, aveva una visione ben definita: “La sua premessa è il mito di un popolo delle origini, puro e non corrotto dalla riforma protestante, dal razionalismo, dall’illuminismo e dal liberalismo; una degenerazione che richiede una forma di redenzione, incarnata a volte dal ‘caudillo’, che conduce il popolo alla terra promessa, che non sta nel futuro ma nelle origini della purezza.(…) Ciò fa del papa un peronista, dalla testa ai piedi. (…) Né di destra, nè di sinistra, bensì ortodosso; e il peronismo viene dal fascismo, con spirito anti-moderno e anti-liberale, con la rivendicazione di un’identità cattolica, corporativa, nazional-popolare”. Una visione, questa, che non poteva non confliggere con il cattolicesimo razionale ed europeo, quello del Ratzinger di Ratisbona e che invece ha trovato punti di contatto con i meridioni e gli orienti del mondo e la loro voglia di riscatto nei confronti dell’Occidente collettivo e del suo paternalismo. Ma non su tutto. E non con tutti. Perché Aleksandr Dugin, il filosofo russo tra gli ideologi più radicali del multipolarismo e della lotta all’illuminismo e al liberalismo occidentali, pur riconoscendo a Bergoglio il merito di aver preso posizione contro il feroce assassinio della figlia Darya, non ha esitato a definirlo un papa “di sinistra, woke, senza dimensione verticale” e addirittura “nello spirito di Biden e Obama“. Il quadro, insomma, è difficilmente riducibile a quegli schemi semplificati che troppo spesso avvelenano l’informazione, anche su temi e personaggi importanti. Ed è giusto così. Perché le cose del mondo, a certi livelli, semplici non lo sono mai.

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