Marletta: “Dall’Ucraina alla Chiesa, passando per il 2030: una lettura metapolitica della crisi globale”
Gianluca Marletta, storico e studioso di tradizioni e religioni, docente e saggista con alle spalle numerose pubblicazioni e co-pubblicazioni di valore sui medesimi temi (tra questi “Apocalissi. La fine dei tempi nelle religioni”, scritto con Mario Polia per Sugarco Editore nel 2008, “La fabbrica della manipolazione”, “Unisex” e “Governo globale”, scritti con Enrica Perucchietti per Arianna Editrice tra il 2017 e il 2019, “Ufo & alieni. Origini, storia e prodigi di una pseudo-religione”, “L’Eden, la resurrezione e la terra dei viventi” e “La guerra del tempio”, pubblicati con Irfan Edizioni nel 2017 e 2018 e l’ultimo “Odissea. La storia di tutte le storie”, scritto con Valentina Ferranti per XPublishing nel 2024) è il personaggio che inaugura, all’interno di questo blog, una nuova rubrica dedicata alle interviste. Si tratta di una rubrica (o, per meglio dire, un “salotto” virtuale) che nasce per informare e per offrire, in tempi complessi e turbolenti, chiavi di lettura volutamente “lente” e da meditare in un mondo che, invece e purtroppo, corre sempre più veloce. Un esperimento che spero sia gradito ai lettori ma che, allo stesso tempo (non intendo negarlo) è utile anche a chi qui scrive, per nutrire una sete di conoscenza che, cocciuta e testarda, è dura a placarsi.
Dal Medio Oriente all’Ucraina, chi, con la nuova presidenza Trump, si attendeva una rapida soluzione dei due conflitti che, più degli altri, tengono il mondo con il fiato sospeso è, almeno per il momento, rimasto deluso. In particolare, per quanto riguarda il teatro bellico nell’Est europeo, nonostante gli stessi USA si siano dimostrati più che inclini a trovare un accordo con Mosca, ha stupito la postura dell’UE, decisamente più assertiva e aggressiva, nonostante sia quella che più ha da perdere da un prolungamento dell’interruzione dei rapporti con il Cremlino. La sensazione, Gianluca, è che la geopolitica, da sola, non possa più spiegare queste conflittualità, mentre servano nuove e più profonde chiavi di lettura, forse addirittura metapolitiche…
“Gli aspetti metapolitici, che per il conflitto medio-orientale sono più evidenti, data la nota preminenza dell’elemento religioso (ne ho parlato ampiamente nel mio saggio “La guerra del tempio”), valgono anche per l’Ucraina. Attenzione, non sono i soli. Limitarsi a un singolo livello interpretativo, del resto, è sempre sbagliato: le chiavi di lettura e le motivazioni sono sempre molteplici. Ma, senza un’analisi metapolitica, si rischia di non capire la complessità del mosaico. Soprattutto in questi ultimi tempi. Chiediamoci: perché l’Europa, che non ha voluto cominciare la crisi Ucraina, che, è bene ricordarlo, data ormai al 2013, e che più di chiunque altro ne ha subito gli effetti oggi, da ‘pompiere’ per necessità, si trova improvvisamente a svolgere il ruolo, apparentemente pazzesco, date le circostanze, di elemento ‘incendiario’? Potremmo asserire che la causa sia una classe dirigente impreparata e totalmente impazzita, ma temo sarebbe una spiegazione fin troppo facile. Dunque bisogna presupporre che vi siano circoli o gruppi di potere, ai quali non è facile dire di no, che stanno spingendo in maniera forte verso questa postura europea. Ritengo, cioè, che se, da un lato, gli Stati Uniti intendono disimpegnarsi dal contesto europeo, per concentrarsi sul Pacifico, e quindi aprono a negoziati, svolgendo di fatto il ruolo di ‘poliziotto buono’ nei confronti della Federazione Russa, dall’altro fidarsi completamente di Putin non conviene nemmeno a loro, poiché è l’unico che ancora può esercitare un’opposizione reale all’Occidente collettivo. Così all’UE è stato e assegnato il ruolo, mi si passi il termine, da ‘poliziotto cattivo’, quello che deve tenere alta la pressione. Questo, però, è anche molto pericoloso. Si pensi, poi, al ritrovato protagonismo, in Europa, da parte del Regno Unito, promotore, con la Francia, della cosiddetta ‘coalizione dei volenterosi’. La visita di re Carlo III in Italia, a prescindere dal contenuto delle dichiarazioni pubbliche, assume in tale contesto anche un elevato valore simbolico. Di più: è un’indicazione”.
Un’altra cosa che incuriosisce, nell’ambito di questo atteggiamento bellicista europeo, è il fatto che, curiosamente, come scadenza per l’attuazione del piano di riarmo sia stata fissata la data del 2030. Un anno che ricorre ormai costantemente, nei consessi più elitari dell’Occidente collettivo: penso al famigerato “reset” del WEF o ad Agenda 2030 dell’ONU. Dalle varie transizioni (ecologica e digitale) agli armamenti, sembra una data buona per tutte le stagioni, come si suol dire. Anche qui c’è qualcosa di simbolico?
“Personalmente, essendo studioso di determinate tematiche, confesso che quando vidi comparire tutti questi opuscoli, manifesti e financo testi scolastici con riferimento ai famigerati ‘goals’ del 2030, rimasi abbastanza colpito. Questa data è infatti la stessa citata da autori e maestri degli studi tradizionali, come l’oblato benedettino Silvano Panunzio o l’allievo di René Guenon, Gaston Georgel, che, attraverso calcoli basati sulla precessione degli equinozi e la tradizione induista dei cicli cosmici, la individuarono come possibile fine del ‘kali yuga’, vale a dire la corrente ‘età oscura’, la quarta del Manvatara, destinata a durare complessivamente oltre 6mila anni. Allo stesso tempo, però, il 2030 fu indirettamente menzionato anche dal curioso autore-esploratore polacco di inizio Novecento, Ferdynand Ossendowski nel suo ‘Bestie, uomini e dei’, come l’anno in cui, secondo una profezia, il ‘Re del mondo’ sarebbe tornato dalla sua dimora nell’Agartha. In ambito solo cristiano, a tale data (approssimativamente, si va dal 2030 al 2033), si arriva però anche attraverso le profezie sulla durata bi-millenaria della Chiesa a partire dalla predicazione di Gesù e ancora Panunzio vi arrivò contemplando le cosiddette profezie di Malachia. In una società scientista e razionalista può sembrare assurdo, eppure è del tutto possibile che, anche in certi ambienti elitari, si subisca il fascino di suggestioni di tipo esoterico e che quindi la scelta del 2030 non sia casuale. La certezza non c’è, chiaramente, ma la storia degli influssi esoterici sulla politica contemporanea non è, come erroneamente taluni pensano, materia da stravaganti complottisti, ma un dato di fatto, ormai certificato da ricerche e pubblicazioni, delle quali mi sono anche occupato personalmente”.
A proposito della “fine di un ciclo”, in molti ormai sembrano entrati in una prospettiva decisamente apocalittica, paventando l’arrivo di un conflitto di vasta portata, capace di coinvolgere potenze nucleari o, in altri casi, l’avvento di eventi cataclismatici (è il caso dei catastrofisti del clima). Cosa ne pensi?
“Da un punto di vista degli studi tradizionali, di qualunque tradizione si stia parlando, la fine di un ciclo corrisponde in ogni caso a eventi traumatici e catastrofici. Si tratta di immagini ben lontane da certe teorie della moderna ‘new age’ sui salti quantici e le elevazioni collettive di coscienza, che fanno abbastanza sorridere. Catastrofe, però, significa anche ricapitolazione. Siamo noi che erroneamente abbiamo dato al termine una chiave di lettura esclusivamente ‘hollywoodiana’, basandoci magari sulle immagini di certi film che tendono a spettacolarizzare eventi straordinari più o meno naturali. Alla fine di un ciclo umano, del resto, si verificano comunque e sempre una o più situazioni drammatiche, che, sempre da un punto di vista dell’interpretazione tradizionale, hanno anche lo scopo, quasi alchemico, di separare ciò che andrà perduto e bruciato (si pensi alla concezione ellenica dell’ekpyrosis) e, invece, gli elementi che fioriranno, trasmutati e purificati, nel ciclo successivo. Di esempi di questo tipo la storia è piena: se pensiamo alla fine dell’impero romano, quella fu certamente la fine di un mondo. E non fu una passeggiata, per chi la visse. Se Sant’Agostino in quel momento temette che fosse arrivata la fine dei tempi, non lo fece perché era un esaltato, ma perché effettivamente la situazione socio-politica, in quei frangenti, era veramente drammatica: il crollo di Roma, che per secoli aveva rappresentato la stabilità, era vissuto come un elemento apocalittico. E lo era, nel suo contesto. Anche sul termine ‘apocalisse’, però, va fatta una precisazione. Questa parola significa anche ‘disvelamento’, un guardare all’essenza delle cose, alla realtà nuda e cruda. Ogni passaggio di questo tipo, ogni fine quindi, è necessariamente dolorosa. Le grandi fini, poi, penso anche alla fine dell’ancien regime, hanno spesso la caratteristica di non essere mai troppo attese: è vero, ci sono una serie di segnali premonitori, ma il crollo, quando avviene, arriva di schianto. Noi probabilmente oggi viviamo in uno di quei frangenti della storia, pare innegabile. Ci sono, del resto, tutta una serie di situazioni che stanno venendo al pettine: la crisi economica, la crisi geopolitica, soprattutto la sfida posta dalle cosiddette ‘potenze revisioniste’ all’egemonia statunitense, la crisi culturale. Tutto sta andando verso un redde rationem. Non sappiamo come finirà, ma è difficile immaginare che un ‘reset globale’ arrivi in maniera ‘soft’”.
Parlando di redde rationem, uno di questi è sicuramente quella conflittualità esasperata che ormai si verifica a ogni livello tra progressisti e conservatori o tradizionalisti. Una conflittualità che è in atto anche nella Chiesa. Tutto questo avviene mentre papa Bergoglio affronta seri problemi di salute…
“La crisi della Chiesa, a differenza di quanto sostiene certa vulgata conservatrice, non esiste né da 12, né da 60 anni. Si tratta di un processo secolare. La Cristianità, che si identificava con l’intera società occidentale, del basso medioevo, era ricchissima. E non mi riferisco a una ricchezza materiale: si pensi alla cavalleria, alle arti, alla produzione culturale. La Divina commedia, la cattedrale di Chartres, l’amor cortese sono tre manifestazioni di un’altezza e di una sapienza incredibile che, però, di lì a 150 anni sarebbe già stata inconcepibile. Non lo era già più, e da tempo, durante il Concilio di Trento. Perché? Perché, a un certo punto, a mio modesto avviso, c’è stato un irrigidimento formale, in cui si è data attenzione esclusivamente all’aspetto morale e a una teologia di tipo scolastico-razionalista, dimenticando la patristica. Questa realtà, così rigida, di fronte alla modernità secolarizzante e rampante, è letteralmente andata in pezzi. La mia è una spiegazione che non piacerà ai progressisti come ai reazionari, ma, ritengo, ha il pregio di essere meno schematica, meno ‘dualistica’. Oggi siamo di fronte a una crisi della Chiesa senza ritorno: non può essere umanamente risolta. Ci vorrebbe un ritorno alle origini, che non è un ritorno al XVI secolo, impostazione tipica di certo reazionarismo neo-guelfo, ma, per lo meno, alla patristica, tornare a guardare a Oriente, in senso non solo geografico. Significherebbe tornare ad acquisire una chiave di lettura sapienziale delle cose. Che oggi, a parte qualche singolo, non è proprio nelle corde della Chiesa, sia quella progressista sia quella conservatrice. Anche questa crisi è un segno potente. Anche in passato la Chiesa ha vissuto gravi crisi di tipo istituzionale, ma rimanevano potenzialità di tipo notevole. Oggi, invece, nel cristianesimo occidentale, da un punto di vista sapienziale e spirituale non c’è più nulla da dire. Rimane la validità dei sacramenti e della preghiera, ma il resto è davvero in una situazione catastrofica. Anche per la Chiesa, quindi, servirebbe un ‘reset’ apocalittico, veramente apocalittico”.
Alludevi al ritorno a Oriente, sembra un po’ venuto meno anche il dialogo tra il cristianesimo occidentale e cattolico e quello orientale-ortodosso. Ritieni ci sia ormai incomunicabilità tra i due rami? E quale è il ruolo del ramo protestante?
“Il dialogo tra cattolicesimo e ortodossia è sempre stato molto difficile. Anche perché, dopo così tanti secoli di separazione, l’ortodossia ha assorbito caratteristiche per certi aspetti più asiatiche che europee. Certo, con la crisi geopolitica in Ucraina lo iato si è allargato a dismisura e oggi, da entrambe le parti ci si guarda con estrema diffidenza, come qualcosa di ‘totalmente altro’. Per contro, però, l’attuale situazione internazionale ha portato anche a un proficuo riavvicinamento tra ortodossia e islam, che potrebbe avere sviluppi fecondi. Paradossalmente, invece, la galassia protestante, pur essendo molto eterodossa rispetto al cristianesimo apostolico, possiede oggi notevoli capacità politiche: ha un potenziale di incidere, nel bene o nel male, sulla realtà e di imporre le proprie visioni ben superiore agli altri due rami. Questo per vari motivi: anche finanziario, se si pensa al ruolo assunto negli Stati Uniti da certe confessioni dell’arcipelago protestante in contesti elettorali. L’amministrazione di Donald Trump, per essere più espliciti, se fa la voce grossa anche in maniera scomposta nei confronti dell’élite americana, lo fa anche basandosi sulla protezione offerta da questi ambienti. Quali effetti questo avrà sul futuro e sul cristianesimo in Occidente, in particolare, possiamo, al momento, solo ipotizzarlo”.