Dedichiamo l’8 marzo alle donne vittime delle violenze delle “marocchinate”
Altro che Averna: il gusto pieno della democrazia, da queste parti, in questo benedetto Paese, è un sogno ad occhi aperti. Per questo saranno in parecchi ad aver letto il titolo del pezzo e ad aver cambiato strada ancor prima di addentrarsi tra le sue righe. Di certo non sarà una dedica alla retorica, bensì alla coerenza. La festa della donna, la sua giornata internazionale, l’8 marzo. Una festa, una danza per esorcizzare, per non dimenticare. Una giornata dalle mille declinazioni: storiche, culturali, sociali, semplicemente umane; e poi ancora un ricordo, una celebrazione, ed un chiaro prolungamento del carnevale perso in qualche locale di provincia o in un ristorante pieno con tavolate di sole donne, inconsapevole proiezione inconscia di massa della perfetta retorica sessantottina, forse, o eredità genetica del femminismo dell’altro ieri. Io sono mia, amen. Un miscuglio antitetico di idoli laici.
In questa data traspare, alla storia, il socialismo, la sofferenza e l’emancipazione, le conquiste sociali – e in epoca moderna, il consumismo, lo stereotipo, l’esibizionismo – ma anche la depravazione, la violenza, l’umiliazione. L’8 marzo è una festa gioiosa, oggigiorno, – fin troppo a giudicare dal numero di pettorali pompati accarezzati, in qualche triste localuccio di periferia che non batte un euro servendo cappuccini, tra sghignazzanti adolescenti e signore desiderose di libertà dai preconcetti e col marito a casa – ma anche un monito perenne.
Ma se le donne, naturale bellezza del mondo, in quest’epoca politicamente fighetta sono, grazie a Dio, emancipate come gli uomini ed anzi assurgono a virtuosismo di questa società brutta e impanata nella costante perdizione – vedi Malala Yousafzai e Samantha Cristoforetti, giusto per citare due casi -, allora non rimane che smussare da questa celebrazione ogni approccio politico, celebrandone l’appendice storica, la testimonianza nel tempo. E proprio perse nel tempo, ferme lì, per la paura dei giudizi universali, per lo schifo immondo che fa assomigliare così bene gli uomini, talvolta, agli animali, per ragioni politiche e ideologiche, per evitare la condanna ai vincitori, da sempre incaricati di scrivere la storia. Ferme nel tempo ad aspettare giustizia, ad aspettare una dedica, un ricordo, che si renda normale, in un mondo così libero ed emancipato, anche la loro silenziosa storia, la loro silenziosa sofferenza: le 60.000 donne italiane vittime delle marocchinate, stuprate – assieme a uomini di ogni età, adolescenti ed anziani, bambini e malati, come testimonia dettagliatamente lo splendido lavoro di Giampaolo Pansa “I vinti non dimenticano” (Bur/Rizzoli, pp.465, Euro 12) – nelle campagne del Lazio, della Toscana, per lo più, dai portatori di democrazia, dai salvatori, dai tedofori della libertà, dai soldati marocchini al soldo del generale francese Alphonse Juin, facenti parte del CEFI (Corps Expéditionnaire Français d’Italie) e quindi del contingente francese della V Armata Americana, in piena campagna d’Italia tra il 1943 ed il 1944. I goumiers, cosiddetti, erano una solida appendice dell’esercito francese, durante la seconda guerra mondiale, capace di cambiare persino le sorti della guerra, contribuendo allo sfondamento del fronte, della linea Gustav precisamente, nei pressi di Cassino, durante le famose battaglie. Ma i goumiers furono anche dei vili macellai della coscienza italiana, carnefici agli occhi della storia.
“Solo Nei giorni che seguirono la caduta di Esperia – ricorda il Sen.Ferdinando Signorelli, Presidente onorario dell’associazione nazionale “Vittime delle marocchinate” – avvenuta il 17 maggio 1943, 7000 “goumiers” marocchini devastarono, rubarono, razziarono, uccisero e violentarono circa 3500 donne, di età compresa tra gli 8 e gli 85 anni.Vennero sodomizzati circa 800 uomini, tra cui alcuni ragazzi e anche un sacerdote, don Alberto Terrilli, parroco di Santa Maria di Esperia, che morì due giorni dopo a causa delle sevizie. Molti uomini che tentarono di proteggere le loro donne vennero impalati. In una relazione degli anni Cinquanta si legge che “su 2mila donne oltraggiate, il 20 per cento fu riscontrato affetto da sifilide, il 90 per cento da blenorragia; molti i figli nati dalle unioni forzose. Il 40 per cento degli uomini risultarono contagiati dalle mogli. Senza contare la distruzione dell’80 per cento dei fabbricati, la sottrazione di gioielli, abiti, denaro e del 90 per cento del bestiame”
E l’inferno continua.
Come volevasi dimostrare: “E’ stata richiesta l’istituzione della memoria delle “marocchinate” e la locuzione di “crimine contro l’umanità”, senza alcun risultato. Come pure sono stati interessati i vari governi per conoscere la sorte toccata alle 60mila pratiche presentate dalle donne violentate per l’accertamento finalizzato al loro riconoscimento di vittime civili di guerra, ma senza nessun apprezzabile riscontro da parte della burocrazia, nelle cui agghiaccianti voragini si sono lasciate spegnere le speranze di un riscatto”
Allora il libro della storia continua ad essere scritto da un solo lato, laddove la conquista civile fa rima con modernità e progresso. Ma come per il ricordo delle vittime delle foibe, tutto questo, è parcheggiato in attesa di giudizio dai finitissimi uomini d’ogni epoca tra sogno e realtà, numeri piccoli e numeri grandi, torto e ragione, verità e menzogna.
Festeggiatelo voi questo 8 marzo, in questa democrazia disconoscente, madre zoppa di alcuni figli che non riesce ad avere mai piena coscienza di se stessa.