Ricostruire il campanile mentre il mondo si autodistrugge
L’Italia è così. E’ semplice. Ruvida e aggraziata, come le colline del “Centro”, che nessuno cita mai quasi fosse la naturale transizione dal Nord al Sud, quasi non vi fosse vita, ne’ storia. C’è voluto un disastro terribile per ricordarsene, per andare oltre Roma. Ne sono crollati di campanili. Mattone dopo mattone, di pievi di campagna ne sono venute giù. Piccoli simboli dell’unità e della coesione di una comunità di un paesino umbro. L’unica patente di esistenza nel tempo. Del resto, dove non arriva la complessità e la dinamicità estrema dei maggiori sistemi, dove non c’è affanno e l’aggressione dei tempi all’Essere di ognuno è maniacale, la vita si fa semplice e ruota su concezioni, spontanee ed estetiche, genuine, quasi primordiali ma con la giusta parvenza di modernità. Voglio dire, anche nel piccolo borgo Umbro è arrivata l’ADSL, quasi fosse un esercito di liberazione. Ed allora non serve riempire il grande stadio, basta sapere che ogni Maggio, proprio in quella chiesetta con annessa una grande collina verde, ci sarà la sagra, la stessa sagra che unisce giovani e vecchi, la stessa a cui ballava, tra vino e fisarmonica, spensierato il padre di tuo padre e lui sì che era tosto, che era un gran lavoratore.
Di chiesette e campanili, ne sono venuti giù nella nostra giovane e splendida terra. Di crepe e scricchiolii, di monumenti alla tradizione, di chiese e palazzi, ne sono venuti giù parecchi. L’Italia fa i capricci, ha gambe fragili, trema troppo spesso. Di simboli ed emblemi non convenzionali a cui attorno è risuonata da secoli la danza dell’aggregazione, si anima la sagra, la festa, la gioia collettiva di un inconscio semplicemente attrezzato per vivere un’esistenza estranea al furore ovino delle masse di città, forse, un pochino stretto tra i bordi della modernità, del divenire, del progresso. Nonostante ciò, per ogni campanile che scrocchiava e minacciava di farla finita, c’era un instancabile uomo di borgo pronto a ricostruire, a correre in soccorso, un po’ come i volontari di oggi in ogni dannato sisma, ad un’identità riconosciuta entro le mura, pubblicamente ed intimamente riconosciuta come propria ma in realtà inconsapevole patrimonio collettivo di una nazione. Cellule d’identità. Uno con la cazzuola, l’altro con la calce. Quello più fortunato con la terza media, detto “l’assessore”, che con fare paterno, guidava tutti. L’altro con la carriola e quello con la scala, mingherlini e sprezzanti, della stessa pietra delle case. Il più in carne e baffuto di tutti, portava il vino e raccontava della guerra; lui l’aveva fatta e non ci si immagina quanto è stato difficile ammazzare.
C’era sempre un pranzo consumato con la famiglia, prima, il lavoro di mani rotte e ricche, con relativa alzataccia alle quattro del mattino, una giornata in campagna e per i più fortunati, sui binari di una ferrovia. Non c’era l’indugio del menefreghismo, tantomeno quel rigurgito di estremo egoismo che ricopre e acceca la visione delle cose.
E come si fa? Lasciamo crollare tutto. Ma ve lo immaginate il paese senza il campanile? Si dice che fu tirato su dai Borgia. Ma quali Borgia, sei nato qui e ancora non hai capito che furono quei signorotti nel medioevo. Date retta a me che ho preso la terza media, il campanile è del ‘600. Prima o poi è normale cada a pezzi.
Poi al lavoro. Un manipolo di omaccioni, colonne di una comunità. Pala in spalla, mica pistole puntate. Quel campanile c’è ancora. E’ li, ovunque. Le sue campane, ancora, dettano il mezzogiorno nell’indifferenza dei passanti, erranti spendaccioni, nella pazza corsa alla sopravvivenza, nel transitare per svolgere compiti, eseguire mansioni.
Una squadra formata da pezzi unici. Piccole comunità come grandi civiltà. Culle di tradizione che inconsapevoli contaminano i passi di un intero popolo, di cui al contempo sono causa e conseguenza. Campanili come antenne della continuità.
Ed oggi, inno alla promiscuità, al rimando, alla tribù globale che non si integra ma si sovrappone, al conformismo, alla massificazione. Dove è difficile essere cristiani, si odia troppo; dove è difficile credere che un Dio non esista, si ha troppa paura. Ed è una vergogna aver protetto un campanile dal crollo. E’ un inno alla volontà che annulla se stessa per la paura di agire, alla comodità di non sembrare, alla psicopatica alienazione che aggrega interessi e disgrega i ritmi della genesi. Aprire la bocca al mondo con la forza per infilarci dentro tutto in ogni momento, sempre più ed ancora, provocherà il vomito delle coscienze, lo stordimento delle anime, adagiando deretani su un Ferrari diretto all’autodistruzione collettiva. Ed il mondo ci scoppierà tra le mani.
Un campanile troppo alto. Su, più su. Ricco di luci e ghingheri, le cui pareti sono addobbate di sponsor e consigli per gli acquisti. Di buoni propositi per la rivoluzione e Touch Screen. L’esistenza comune, tra denari e compravendite, digitali terrestri e network, competitività ed estremo relazionismo, volontà inconscia di auto annullamento e perdizione, depressione, figli che piangono e coperte sempre troppo piccole, aria rarefatta e rischio di soffocamento, ambiguità e menefreghismo cronico, giardini ed imperi, colonie ed affari, è piena di crepe e minaccia di crollare. Dunque, dove sono i gli uomini che accorrono dalle campagne?
La vera avanguardia è tornare se stessi, ritrovare se stessi. Come ascoltare un suono antico, vivendo. Oggi. Fermarsi nella mischia. Riconoscere volti, rialzare i caduti. Va tirato il freno a mano ad una macchina fuori controllo. D’altronde, chi ha mai detto che il progresso sia necessariamente proteso in avanti? E se per una volta non fosse del tutto così? Allora si che non la si racconterebbe giusta a chi ci vuole strumento d’affare, utili primitivi in un mondo hi tech .