Un pensiero per rifiutare il cinismo. Per contrastare la negatività con cui il nostro sistema è nutrito.

Buon Natale a chi lotta, nonostante il termine appartenga al medioevo delle idee. Buon Natale ai miei fratelli, che il medioevo lo vogliono superare con un nuovo Rinascimento.

Buon Natale a chi sta in una tenda, in una roulotte, in una casetta di legno. Il tremore di una candela accesa, durante un canto, vi faccia dimenticare quello della terra, impietosa. Che le luci di un albero di Natale nelle vostre piazze brillino negli occhi lucidi dei vostri figli.

Buon Natale alle partite IVA, il tappeto elastico dello Stato. I veri evasori a cui togliere persino il piatto di carta in cui stavano mangiando due noci per Natale, secondo lo Stato.

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Buon Natale ai Cristiani perseguitati in Medioriente e in ogni parte del mondo. “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 15,18-20). In voi è il coraggio di una Fede pura, persa tra le stanze vaticane.

Buon Natale a chi si scalderà l’anima con la Tradizione, nel freddo del nichilismo crescente. A chi crede che essa non sia un ammennicolo impolverato nella vetrinetta porta bomboniere della zia tirchia; a chi crede che la Tradizione sia la conservazione del fuoco e non l’adorazione delle ceneri.

Buon Natale al prodigio, vera virtù di un’epoca scarna di entusiasmo.

Buon Natale a chi si batte contro il conformismo, grande male della nostra era, esaltazione di una fine piatta.

Buon Natale a chi non ha più niente. Il sacrificio vi aprirà presto la strada verso la redenzione. La rivincita è per chi ha tenuto duro. Qui patitur vincit.

Buon Natale agli oltre 4 milioni di poveri e ai 12 milioni che rischiano la povertà. Fratelli miei, avete creduto, avete lavorato. Avete gioito, avete sperato. Siete vittime del materialismo che squaglia ogni vicenda umana come acido, della Tecnica che corrode un mondo a dimensione umana. Non siate vittime di voi stessi. Mai. Non mollate, vi prego.

Buon Natale a chi sta preparando il cenone della Vigilia nelle zone del terremoto e a chi lo farà in una mensa. Fratelli volontari, so cosa significa. La vostra presenza è il riferimento. Hanno cercato e cercheranno voi come uscita dal male. Siete più che uomini in divisa, siete più che volontari.

Buon Natale a chi mi ha dato la possibilità

Buon Natale a chi percorre la via del Ritorno verso una dimensione umana delle cose e del tempo, per chi capisce che non ci sono scuse alla felicità se si ha la volontà di cercare in qualcosa di possibile. Buon Natale a chi riscopre la delicatezza e la dignità

Buon Natale a chi saprà rinnovarne lo spirito, collegandosi con l’Assoluto e per una volta, non col wifi. A chi saprà superare il bosco. A chi si aggrapperà al tempo, a chi riuscirà a distinguere il volto di una Civiltà nei frammenti di uno specchio rotto, in una stanza immensa, cosparsa di fumo.

Buon Natale a chi ha capito di aver sbagliato

Il coraggio di essere ultraitaliani.

Ultraitaliano è colui che interpreta nella essenza profonda la propria italianità. Ultra come ultrà. L’immagine perfetta la restituiscono i tifosi dell’Hellas Verona, stagione 2015-2016: la propria squadra che perde fino a retrocedere; la loro curva sempre piena, orgogliosa e – sì – vittoriosa. Perché la città, cucita in quella maglia, si sostiene in ogni caso, che vinca o che perda. Al suo destino si partecipa sempre. Già, il sangue e il suolo non sono fatti accidentali: lo dimostrano, e lo insegnano, i tifosi di tutti i “campanili” d’Italia. Adesso però – per uscire dalla crisi di identità in cui il Paese è precipitato – è necessario trasformare i campanili in una casa comune. La formula, in fondo, è semplice. Il primo elemento ce lo dà Pier Paolo Pasolini, quando spiega come «il tifo è una malattia giovanile che dura tutta la vita». Se a questo ci aggiungiamo l’altro elemento, la Nazione, il «plebiscito di ogni giorno» di cui parlava Renan, il gioco è fatto. Perché il Paese ha bisogno del coraggio degli “ultraitaliani” in ogni campo – dal lavoro all’arte, dalla società alla politica – contro gli starnazzi degli italiani occasionali che alimentano il falso romanzo collettivo sull’Italia malata di accidia. Come contraltare esistono loro: sostenitori che tutto il giorno scendono sul rettangolo di gioco dove si fa il Paese. È arrivato il momento di tifare per loro. E, perché no, di scendere in campo come loro […]

E i giovani italiani? Hanno tutto per diventare ultraitaliani. Certo, più comunitari dei loro padri, però solo virtualmente, sono insofferenti, affannati a costruirsi un futuro, a riempire il portfolio, intenzionati a non prender un bel calcio nel curriculum; si ritrovano a combattere per trovare il proprio ruolo e incarnare un’identità che superi il virtuale, mentre la nave affonda e il web strilla: «Si salvi chi può». Sessualmente curiosi ma schiacciati dalla noia e annoiati dalla politica. Invitati a banchettare sul baratro dall’individualismo, uniti per condizione nel collettivismo isolato: siamo in tanti ma non ci vediamo da mesi; non fratelli ma coinquilini. Che immagine hanno di sé? Nello specchio del nichilismo vedono il volto sfocato di chi li ha preceduti e ha lasciato loro un debito anziché un’eredità. Nell’epoca della velocità siderale, leggono poco, strillano e scrivono molto. A cavallo tra l’Autarca che basta a sé stesso, che ha raggiunto la condizione dell’autosufficienza e quindi la saggezza, la felicità, e l’Anarca di Jünger, in cui vive la sovranità dell’individuo, il rifiuto del potere e l’assenza di uno spirito di appartenenza ad una ideologia esatta. Generazione Y, generazione cavia, de-generazione, giovani con l’horror vacui tatuato nel cuore?

Al contrario. Sotto le macerie di questo tempo vi è una vitalità intrappolata che può riscattare la tragedia: lo abbiamo visto nella gesta dei tanti ultraitaliani nonostante l’Italia «legale». Cova lì il fuoco di chi non si arrende alle statistiche storpianti. Ecco perché un appello alla gioventù ultraliana è urgente. Perché solo questa ha la forza per irrompere sulla vera frattura post-ideologica del nostro tempo: che non è più destra contro sinistra, non è solo élite contro popolo, ma chiaramente è gioventù contro status quo. Non è una guerra contro gli anziani, attenzione. Ma contro l’inamovibilità di un intero apparato sociale che contempla (sempre peggio) tutti e tutto tranne che i giovani, o meglio i prossimi. Quest’ultimi li hanno parcheggiati nelle Università, lauree tre più due, master, tirocini, e tanto altro ancora prima di far loro respirare la maturità esistenziale. Così, molti fra questi sono diventati narcisi digitali che si nutrono di social network, cullati dagli schermi che accarezzano sensualmente. Padroni, ma solo in pectore, del nuovo mondo, quello digitale, che paradossalmente subiscono invece di usarlo per impadronirsi del nuovo tempo che appartiene loro. Nativi digitali, moribondi del reale. Si accontentano della visibilità invece di farsi visionari.

Come diventare, allora, una gioventù ultraitaliana? Fra le piazze virtuali e quelle reali, come far esplodere una protesta costruttiva? Cosa manca? L’unione. Anzi un termine non abusato: una complicità generazionale. Ossia la voglia di uscire dagli schermi e sfidare le bassezze a cui sono sottoposti. Già detto? No. Qui parliamo di partire con semplici operazioni di protesta. Non accettare lavori a basso prezzo per non fornire alibi a chi crede che sia normale farli vivere dentro un eterno stage. Tirocinanti della vita. Creare gruppi di lavoro, comunità di giovani professionisti capaci di ideare progetti collettanei. Avere il coraggio di tornare anche alla terra, ma con il valore aggiunto delle nuove tecnologie e delle proprie conoscenze accademiche. Multidisciplinari. Destreggiarsi fra le bellezze del nostro Paese. Visitare i musei, comprendere la maestosità di chi ha costruito l’epica artistica italiana. Creare delle start up, certo, senza dimenticare però di investire sulla lentezza, quel pensiero meridiano che ci rende capaci di riflettere e di sedimentare fuori dagli schemi del puro produttivismo. E poi: non basterà inglesizzare la lingua, ma servirà amplificare il nostro ruolo di crocevia geografico, che ci permette di relazionarci con l’altro e con il resto del mondo mettendo a frutto le nostre radici. L’Italia è infatti il cuore del Mediterraneo ed è il luogo simbolico di un processo culturale che si può fare carico delle contraddizioni del mondo attuale, poiché essa è il ponte immerso fra l’arcaico sentire e il futuro presente che ha da sempre unito, oltre le differenze.

La gioventù ultraitaliana ha il compito di incidere sulle sorti di un continente, mettendo al centro dell’azione politica quel sentimento ancestrale di pietas, humanitas e religio che la Storia ha impresso nel nostro dna di italiani. Non arrendersi vuol dire lottare per rimanere nel proprio Paese, in direzione ostinata e contraria ai 107mila compatrioti che secondo le recenti statistiche hanno abbandonato l’Italia nel 2015. Non arrendersi vuol dire rimanere per sbugiardare chi con l’indice traccia per noi rotte straniere verso altri Paesi e continenti. Significa non farsi sostituire da una statistica, dal pregiudizio, dagli stereotipi, lottando per non scomparire. Significa prendere spazio. Perché i giovani italiani hanno voglia di girare il mondo, di fare esperienza, ma con la forte idea di ritornare e viverci, in questa eterna Italia. Perché sono italiani e impareranno a esserlo, ultraitaliani.

(Premessa e postfazione di “Il coraggio di essere ultraitaliani”, di Ricucci-Rapisarda-Bovalino, 2016, edito da Il Giornale)

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