Clandestino. È reato chiamarci qualcuno. Io continuerò ad usare questo termine, perché seguo il senso fondante della mia lingua, e lo farò, clandestinamente. Finirà che gli italiani dovranno parlare la loro lingua clandestinamente, appunto; finirà che sarà l’italiano a fare la fine del clandestino.

Ma l’italiano, cos’è? Ben più di una lingua romanza, di un’ispirazione musicale, di un doppiatore internazionale, di una puttana degli esotismi – come ben risalta Patrizia Valduga nel suo “Italiani, imparate l’italiano!” (Edizioni d’If) -. Dell’idioma che si parla nella Repubblica italiana. L’italiano è la nostra terra d’origine. L’unica cosa effettivamente capace di spiegare gli italiani, assieme al dialetto. Lì dove veramente risiediamo, come ben diceva Emil Cioran.

Misericordia. Il giubileo era della misericordia, ma Francesco s’incazza e spedisce il cardinal Burke in uno dei nuovi esopianeti appena scoperti. Menomale che era della misericordia, il giubileo. Pensate se fosse stato dedicato al Timor di Dio, come propose Camillo Langone sul Foglio; traslato dal sacro al profanissimo: Burke, il tradizionalista, uno di quelli della Dubia, in contrasto con Sua Santità, sarebbe stato direttamente incarcerato a Guantanamo in una cella piccola, con un pasto da sole tre portate e un paio di mutande di oro fatte da Maurizio Cattelan. Forse la peggiore delle torture.

La parola non ha più senso. Continua l’emorragia dei significati. La funzione culturale del linguaggio, non solo l’etimologia che dietro vi si nasconde, viene sapientemente azzerata. Prima di costruire il nuovo, bisogna cancellare il vecchio. Questo è il principio di integrazione del Progresso e dei suoi sacerdoti. Quello tra uomini, quello tra i sessi, e quello tra una lingua e il futuro.

Per questo sono fortemente arculiogerio. Profondamente, arculiogerio. Ed è difficile pensare il contrario.

Eravamo fatti di lingua. Nobilitazione di un popolo. Se si continua così, non riusciremo più a sentire il sapore del significato.

Io non capisco. E mi sento confuso. Come dovrei dire cosa? Come dovrei esattamente dare il senso alle parole con cui mi esprimo per lavorare e vivere? Allora tutto diventa poesia se si dilatano le pupille del linguaggio; si dilatano così tanto da incorporare sensi e significati, emozioni e visioni ancor più grandi, come l’albume dell’uomo, montato e rimontato che si addensa nella poesia. Vi piacerebbe! Qua non c’è nessun fine etico superiore, nessun moto culturale. C’è solo l’imposizione, dei nostri governanti, di controllare la lingua affinché si adatti ad un regime di idee, limitando la libertà della sua essenza, dei suoi vocaboli, delle sue espressioni. Delle sue infinite accezioni. Come si educa un bambino a non dire parolacce, educare gli italiani a non ferire il regime con le parole. Allora facciamo così: per me la Boldrini è una clavicembalo. Sì, basta. Come Gentiloni è un enorme parallelepipedo. Basta, e di questo ne farò una battaglia. Tra i dada e i futuristi, tra un logopedista e uno psicologo. Perché questi ultimi due, più che una pletora di intellettuali arrapati, macina libri, eccitati di fare la loro misera figurina in quest’epoca mentre loro salgono le scale della torre d’avorio, in cui gli uomini danno il peggio di sé, e sono piccoli, piccoli, servirebbero. A tutti. Logopedisti e psicologi. E non il nucleo per il controllo e la tutela del linguaggio di genere del dipartimento delle Pari Opportunità. Che poi: pari de che?

Misericordia, clandestini, boldrinismi, neologismi, inglesismi. Altro che Minculpop.
Eravamo fatti di lingua, l’unica, ultima vera sovranità concessaci. Che poi, a giudicare dalla mancanza delle H sui post di Facebook, dai ne scritti senza accento o dalle E maiuscole con l’apostrofo, per non parlare di fratello congiuntivo, avevamo noi rifiutato di essere sovrani. Ma l’errore ci sta, l’orrore no. E non si tratta della grammatica delle elementari, ma del gettito culturale che una lingua porta con sé, come parte fondante ed eterna di un’identità, quella che più difficilmente si decostruisce, perché così prossima e naturale a noi.

Ah, “naturale”. A proposito: qual è il prossimo passo? Naturale non si può dire, biologico non si può dire, ricchione, con simpatia, all’amico fattivamente ricchione, con cui si hanno ottimi rapporti oltre i sogni di gloria di Niky Vendola, non si può dire; Berlusconi, non si può dire; Predappio, non si può dire; Péne e vagina, non si possono dire; figli, scuola, gioia, genitori, padre, madre, sole, barca a vela, maraschino, bubbusettete, amore, Italia, Patria, confini, terra, identità, nazione, allegria, buon vino, nonni, tradizione, conservazione, bicicletta, riunione, squadra, amici, comunità, sardanapalo, crociate, musulmani, Islam, Lazio, Chiesa, Cristo, Dio, ano, eruzione cutanea, preservativo, lavoro, futuro, non si possono più dire. E qui non si può dire più niente: ci si irrita sempre il…senso comune!

Volete una lista di quello che (si può e) non si può dire secondo legge? Eccola

Abbiamo passato secoli a dare un senso alle cose, a partorire il genio innovatore, come Dante e D’Annunzio, a ricercare i significati dell’esistenza, della lingua, del greco antico, ispiratore nelle sue sfaccettature, del latino, nelle sue evocazioni, del volgare fiorentino, parola per parola; abbiamo integrato i dialetti, abbiamo ricercato i significati della forma, del tempo, del pensiero. Quelli dell’etica, giuridica, sociale, politica ed economica, ne abbiamo fatto carne da filosofia, e quelli dell’estetica, nelle avanguardie, nelle geometrie, nelle perfette asimmetrie, nelle astrattezze. Abbiamo cercato Dio per chiedere un significato, poi lo abbiamo schifato, tanto è un dogma, e lo abbiamo chiesto alla scienza, alle rivoluzioni, alle macchine e alla tecnica. Alcuni alla Lsd o all’Mdma, altri allo sciamano. Abbiamo fatto per sapere, abbiamo vissuto per capire e poi, non si capisce bene cosa abbiamo fatto di male per poi ritrovarci denunciati se diciamo clandestino. Se chiamiamo un signore, o una signora, che entra di straforo nei confini e nella giurisdizione di un Paese, per quello che la lingua italiana vuole: clandestino.

Dai, diciamocelo: stiamo fuori di testa un pochino, vero?

Da clandestino, a profugo, da immigrato, a migrante fino a temporaneamente presente. A breve, essenza di passaggio. Siamo ridicoli.
Santo cielo! Non ci serve un premier, ma un logopedista – e uno psicologo -. Decostruire la parola, in una civiltà che nasce dal pensiero che diventa lingua, è smontare le più solide fondamenta di una cultura riconosciuta, universale ed intima. Ma questo già lo sappiamo. Ciò che manca veramente alle perversioni, fatte passare come assoluti dogmi laici del presente, del politicamente corretto, è la coerenza. La coerenza che sfocia, talvolta, nel rispetto.

Per tutte quelle volte in cui ci si sente accusati di essere dei mostri che difendono l’essenza della propria terra, la propria eredità e si sentono dire: vigliacchi, nazisti, fascisti, maoisti, assassini, tromboni, Salvini e/o salviniani, vecchi, decrepiti, morti, decomposti; inutili, fuori tempo, fuori budget, asserviti, nani, impotenti, fenomeni da baraccone, italianipizzamandolinobaffiolè – detto da uno che te lo scrive su Facebook ma ti abita a 22 km di distanza -, e così via.

Bene, visto che la legge interpreta il sentimento che si cela dietro ad una parola, giudicandone un reato, perché essa non difende anche me dalla cattiveria siderale del mio avversario?

Si naviga a vista nella vaghezza. E i significati si perdono nella nuova dittatura del relativismo.

Alla pugna amici miei! E se proprio volete un motto che vi ispiri durante la battaglia per ricordarvi che per mettere ordine al caos, serve ordine, non altro caos: Se uno è stronzo, non je posso dì stupidino – si crea delle illusioni – je devi dì stronzo (Gianfranco Funari, intellettuale…)

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