Oggi l’Isis ha ammazzato Ormang. Il giovane soldato che ci raccontava ogni giorno su Facebook, la vita (fiera) di un soldato al fronte contro l’Isis
IMPORTANTE AGGIORNAMENTO: Fonti locali, confermavano la morte di Ormang, avvenuta negli scontri con i miliziani dell’Isis per la liberazione di Mosul. Solo qualche minuto fa, e a qualche ora dalla pubblicazione di questo articolo, dopo che la sua bacheca si è popolata di messaggi di cordoglio, una smentita. Nel caos post battaglia, il corpo di Ormang è stato da poco ritrovato con un proiettile nella cervicale. Ha perso molto sangue. È stato trasportato d’urgenza nel primo ospedale ma le sue condizioni sono gravissime. Più vicino alla morte purtroppo.
Ci sono due modi per avere trent’anni oggi. Rimanere o scappare. Rimanere o essere il cervello in fuga. Rimanere o fare il migrante. Rimanere o sparare. Rimanere o piangere, frignare, lamentarsi, nascondersi. Rimanere o barcamenarsi nella neutralità.
Cadaveri da consumo, stereotipi del mondo libero. Giovanotti morti prima di nascere.
Poteva fare il contemporaneo, Ormang. Prendere un aereo e volare lontano, dove non ti fischia l’RPG vicino alle orecchie. Dove il vento del deserto non ti taglia la faccia. Dove la notte dormi con gli occhi chiusi. Lontano dal male, come i suoi coetanei, lontano dal male. Se non lo vedo, non lo vivo. E non c’è il demonio. Lo dice anche la tv, lo ripete, replicante, anche la summa dei politici. Il male è lontano, non tocca a me, quel che sento alla radio. Non tocca a me.
Poteva diventare europeo, Ormang, poteva diventare una statistica, poteva entrare nelle rete degli eterni sfigati, a sentire loro, di quei suoi contemporanei ancora non adulti che sinceramente hanno detto, ben l’80%, che i confini del regno, il sangue e l’identità di questa terra, possono gioiosamente andare a cagare in un dimenticatoio lontano. Tocco ergo sum, il resto è fanta-fascismo. Col cazzo che morirei per l’Italia o per l’Europa, qualunque cosa sia, hanno detto.
Poteva fuggire dalla guerra, il mio coetaneo, imbarcarsi, chiudere gli occhi, mettere le cuffiette. Poi addormentarsi e ritrovarsi a Roma o a Ginevra, libero, salvo. A fare proseliti, a ricordare agli europei come si combatte il demonio, oppure a fregarsene, come fanno tutti. Anche solo di avere una coscienza del tempo, di rendersi conto. Fregarsene, Tutti.
Poteva fuggire dalla guerra, richiamo della viltà di questo tempo. Annullata nella pace di un’eterna fase di creazione distensiva, mentre gli uomini bramano per avere la distruzione tra le mani, e neanche se lo immaginano. Alcuni. Solo per poi ricostruire e ricordarsi chi sono. La guerra mai evocata, mai combattuta, lontana. Non si deve dire guerra, se non quella ai razzisti e a chi vuole la guerra. La guerra assente dagli uomini, che, intanto, si stanno ammazzando con le proprie mani, subdolamente.
Ormang non esiste, Ormang non si può dire. Lui la guerra l’ha combattuta. E con la croce al collo. Con la forza di chi crede, non schiva Dio, la storia, la responsabilità di trovarsi nel luogo sbagliato, nel momento sbagliato. Oggi l’Isis ha ammazzato Ormang Sheikh Mohammed, un ragazzo moro, con gli occhi di ghiaccio azzurro. L’Isis lo ha ammazzato sparandogli, a quanto dicono le fonti dirette, mentre era sul fronte, e mentre il treno fischiava da queste parti, ma la voce dei leader di partito è sempre troppo forte. Copre nomi, cognomi. Copre il suono delle vicende.
Ormang Sheick Mohammed combatteva nella Unità di Protezione Popolare (YPG), un curdo del Kurdistan siriano. Nel suo profilo Facebook, tra le informazioni, c’è ancora riportato, nella sezione lavoro “Cecchino. Camminare sopra le teste dello Stato Islamico”.
YPG. Lo stesso YPG che ha respinto l’assalto dell’ISIS alla città di Kobane nel gennaio 2015, e impedito l’accesso dell’ISIS al confine con la Turchia. Mentre quello che riteniamo il migliore dei mondi possibili, crepa, dal di dentro, nella sua nuova adolescenza, e tira tolleranza e burocrazia in faccia al Demonio, questo giovanotto, e tanti come lui, si prendono un proiettile al collo in mezzo al deserto. E stavolta, purtroppo, se l’è preso davvero.
Ormang era uno dei tanti. Un simbolo. E raccontava la sua storia nello stesso social in cui qualcuno condivide la notizia del ritrovamento di un angelo. Vero. Un angelo vero, cazzo. Raccontava la sua storia quasi ogni giorno.
“Merita questo e non altro”, scriveva sul suo profilo Facebook, a commento di una foto in cui schiacciava la testa di un miliziano dell’Isis con l’anfibio color sabbia. Sorrideva di vittoria. Ogni catturato, il male s’indebolisce. Poco alla volta.
Scriveva sempre sul suo profilo, tenendo un diario. Un diario che leggevo spesso, e a volte, innegabilmente, mi sentivo piccolo. Mi sentivo piccolo chiedendomi: cosa io e la mia generazione stiamo facendo per arrestare il declino?. Certo, ognuno ha la propria funzione. Io scrivo combattendo. Lui combatteva sparando. Io combatto con la Partita Iva, lui con la Glock.
Ma è inevitabile il paragone dell’essenza di un’intera generazione che ha una funzione storica, oltre le Alpi. Perché la storia è ora e ci coinvolge tutti. Sempre che la tua mente non è circoscritta come il giudizio del popolo sul costume altrui. “Di quella bagascia che viene in chiesa la domenica con i jeans”, diceva bestemmiando appena uscito dalla messa qualcuno.
Mi sentivo piccolo per nostalgia del presente. Quel senso orribile di non riuscire ad acchiappare il presente, ma di continuare a rispondere ad ognuno. La nostalgia è la molla che non si può bloccare negli uomini, come agente reagente istintivo che riconduce alla lontananza di ciò che è stato e di ciò che non si riesce a vivere. Come oggi noi ci sentiamo nel fare l’amore più frigido col nostro tempo. Lo possediamo, in quanto presenti, ma non riusciamo ad amarlo, se non nelle comodità e negli sviluppi positivi della scienza, della Tecnica. Del nostro possederci per amare il tempo che viviamo, e non solo quello che abbiamo vissuto.
È Marcello Veneziani a spiegarci cosa sia la nostalgia, come base dell’uomo presente: «la nostalgia del presente appare quasi uno scippo di vitalità alla pienezza del tempo in atto […] È il sentore di non vivere abbastanza il presente, di non trattenere alcuna traccia di quel che sta accadendo».
C’è un dolore più pressante di una sovranità che non si riesce a (ri)vivere nel presente? Nel sentirsi impotenti di fronte ai bavagli, ai drammi che viviamo ogni giorno?
“Nessuna pietà per i terroristi che non hanno l’umanità e la compassione che uccidono i bambini e le donne”, scriveva Ormang in una foto vittoriosa, appena catturati tre soldati del Califfo; bendati e inginocchiati, sotto gli stivali festanti dei ribelli. Qualche foto più giù, ecco tre connazionali immortalati: “volontari dall’Italia in Kurdistan per combattere l’Isis”.
Arrestare il declino. Ti sentivi piccolo in ogni riga che leggevi, in ogni foto che guardavi, quasi spiando, perché l’impatto fisico per fermare il male ha un peso diverso nella storia, non è una guerra di concetto. E poi quando mi giravo dall’altra parte del cuscino, incrociavo gli occhi saccenti e frignanti di Greta e Vanessa, le ricordate? Vedevo da lontano quel ragazzo libico di trent’anni, muscoli e iphone, arrivato dal mare; migrava dalla guerra, dalla fame, dalla carestia, dal mal di stomaco, dal caldo africano, dalle scuse. Migrava, e lo vedevo, sulla panchina a ridere con gli altri suoi coetanei. A non fare un cazzo di buono. Mi giravo dall’altra parte del cuscino, nella notte dei miei pensieri intimi, e vedevo quel tizio che suonava John Lennon in piazza, mentre altri, con i rasta e la lacrimuccia, disegnavano laicissime frasi di pace a terra. La terra, la stessa dove cadono i corpi dei martiri. È il sangue che colora la terra. Eppure questo non veniva capito, da queste parti. Disegnare frasi di pace, mentre poco sopra, il nano che svettava come un gigante zoppo, l’applauso a bocca piena e occhi tristi dei leader della grande Europa. Bravi, ragazzi. Cantante la pace, non reagite. Cantate la pace, siate statistica. Cantate la pace, siate tolleranti. Mantra, Litania, il canto lieve tutto porta via. Porta via, tutto porta via. Litania. Non in armi, litania. Tutto porta via. Tolleranza, litania, tutto porta via. Aspettate, tutto porta via. Il terrorismo è casualità, non è religione, non sono nemici dell’Occidente ma fratelli che sbagliano. Tutto porta via, litania. Litania. Aprite le porte, siate fiduciosi. Ong, solidarietà, entrate, entrate pure! Non v’è ragione di dubitare, emigrate, incerti. Integrazione del nuovo è sostituzione del vecchio. Litania, litania, litania. La tua terra è la mia, il tuo Dio è il mio. Litania, il canto lieve tutto porta via.
Non riuscivi a levartelo dalle orecchie.
Ratataatataa! Dall’altra parte. Dov’era Ormang mozzicavano le pallottole di Kalashnikov. E in quel diario c’era lui, giovanissimo, a tenere in braccio un fratello morto, fradicio di sangue, con quattro buchi, la testa bassa, la bocca aperta e gli occhi chiusi, ammazzato poco prima. In combattimento. “Fanculo, Isis, fanculo”, scriveva. Ammazzato da quelli che vengono a cercarci per ammazzare noi. E noi non facciamo un filtro, lo fanno loro, quelli come Ormang, laggiù, dove il male è lontano, non si sente, non ci si pensa.
Ti sentivi piccolo per assenza della tua funzione, non per eccesso della sua. Per non saper reagire fuori dal coro, adeguatamente, perchè non sarei riuscito neanche a portare in piazza i miei coetanei, figuriamoci. È una tragedia che ha poco valore nel regno dell’utilità e del profitto. Degli uomini asessuati, antropomorfi. Quelli di oggi ricordano quelli di ieri. E basta.
Mi sento piccolo così, suddito del Papa. Pontefice Massimo. Oltre ogni cosa, vicario e fotocopia di Cristo, argentino, come Antonio Porchia, che scrisse: “Chi mi tiene per un filo non è forte; forte è il filo”. E il filo, la connessione è forte, e fa andare oltre gli uomini. L’argentino diceva che il giorno di Pasqua dovevo essere simile al migrante col volto di Cristo. Sorride sempre, il Papa. Il giorno di Pasqua Ormang aveva messo una foto. “Buona Pasqua” e una croce di legno. Con dei fiori ai suoi piedi. Laggiù la croce non è l’argentino. La croce è il filo. Laggiù è il motivo, la connessione, la cosa rimasta. La croce pop, la croce dei ribelli. La croce dell’Occidente, la croce dei martiri. La croce delle aspettative, e la croce dei bastardi senza gloria. Come fu un tempo è oggi. La croce dei chiacchieroni, dei farisei, dei piagnistei. La croce della misericordia, della discordia, la croce sulla collina nel fronte di battaglia contro Il Saladino, quella che svettava altissima per prima, prima delle prime linee di fanti. 25 febbraio 2017: “Liberata e portata la croce di Gesù Cristo da appendere in cima alla Chiesa”.
E continuavo a sentirmi piccolo.
A volte, tra le centinaia di foto e video, tra immagini di spari, di scudetti pieni di sangue, scovavi lui, sereno, seduto sul sagrato di una chiesa ancora non distrutta nelle sue terre, a scrivere che si sarebbe aspettato di crepare in ogni momento, combattendo contro l’Isis. “Ogni passo ha una fine”, scriveva, commentando una sua foto, incastrato dentro una mimetica, un elmo, e con in mano un g36. Oppure lo vedevi in palestra, cercare ristoro dal disastro, come se lì, la guerra non ci fosse. In tuta e Adidas. “Prima regola di vita: non arrenderti mai. Secondo: essere sempre sicuro della prima”. Scrisse qualche settimana fa, sorridente, per strada.
Ma che schifo. E mi rintanavo a guardare il profilo di Ormang per sentirmi un po’ combattente, un pochino orgoglioso, forse meno codardo, meno impacciato ed impotente. Per sentire che altri, come me, vogliono difendersi, sentono la bestia, ricordano di essere vivi e ardenti.
Ma cos’altro avrei potuto fare? Fare il coro? La narrazione dei combattimenti. Per non sentirmi più piccolo, avrei dovuto aspettare che lo ammazzassero. Ecco! Aspettare che lo ammazzassero Ormang, povero fratellaccio lontano, per poi raccontare chi era: un figlio del suo tempo, non uno spettatore a fine primo tempo. Uno che ha scelto di rimanere quando tutti scappano, uno che sapeva di morire, quando tanti s’annoiano a morte. Uno che era fiero della guerra, come quegli italici che fummo, come quelli del ver sacrum, perché la battaglia porti le regole dove non ci sono, esaltazione spirituale e terrena di una distruzione che crea l’uomo nuovo, non lo azzera. Perché ciò che lo azzera è ciò che lo rende numero, drone di Amazon, mezzo per ottenere un profitto, asessuato, asettico, statico, massa selvaggia, incapace di reagire, di ricordare chi era, di provare schifo, di coltivare se stesso, di scatenarsi dal conformismo. Che si accontenta, la vita lo sfiora, la dona in pegno, in cambio di un compromesso per arrivare fino alla fine, senza che nulla lo disturbi nel suo cammino, piccolo, piccolo, come quello del borghese di Alberto Sordi: “Pensa a te, Mario, pensa solo a te! Ricordati che in questo mondo basta fare sì con gli occhi e no con la testa, che c’è sempre uno pronto che ti pugnala nella schiena. D’altronde io e tua madre siamo soddisfatti: abbiamo un figlio ragioniere, che vogliamo di più? Per noi gli altri non esistono. Tu ormai sei sistemato, noi siamo vecchi: non c’abbiamo altre ambizioni. Tutto quello che vogliamo è morire in pace, con la coscienza a posto”.
La guerra è il risultato della logica biologica. La logica è connessione di sanità. Lega gli uomini a loro stessi. Difendere la caverna, difendere la nazione. Difendere la moglie, la stirpe, il disabile, l’istinto, la reazione. E dopo venga la pace. Si vis pacem, para bellum. Si vis pacem, non essere, oggigiorno. Non essere e basta. La pace è negazione, oggi, è non essere nulla, è non essere tempo. È non essere in tempo.
Sulla divisa Ormang aveva uno scudetto, e una scritta: Isis Hunting Club. Un club di caccia.
Scelte. La volontà ha ancora un significato nel conformismo di Stato. Nel momento in cui ci si gioca tutto. Prima delle idee, ci sono gli uomini, i grandi assenti della contemporaneità. Alchimisti o assassini? Militanti o replicanti? Cittadini o coinquilini? Sudditi o sovrani? Uomini standard, massa, nomade, che non sia distratta dall’armonia, dalle connessioni, dalla cultura, dallo spirito, da se stesso, nella marcia verso il progresso. Tornare a coltivare l’uomo, sarà la vera conquista della modernità; il vero motore di tutto, ancor prima delle idee che governano il tempo. Che sappia rallentare la velocità e scindere la complessità, ripartendo dalle cose semplici che reggono il tutto. Contro il mondo evanescente degli uguali, sempre più fatto di tecnica, materia e negazione. Verso la sovra-umanità: gli uomini sovrani.
La volontà porta agli uomini sovrani.
“Il mondo ha perso un grande soldato. Un combattente curdo 24 anni, impegnato in battaglie con ISIS ogni giorno. Era attivo sui social media, documentando dove viaggiò e che i singoli membri dell’ISIS uccisi. A volte documentava la perdita triste dei suoi amici che erano persi nella battaglia dei giorni. Oggi lo hanno preso. Non l’ho mai conosciuto in persona, ma ci avrei parlato. Non piango spesso ma ho appena scoperto questa notizia e mi ha colpito veramente. Questo era un Guerriero”. Così ha scritto un Filippus Hugihard, un americano, sul profilo di Ormang.
Oggi, da tutto il mondo, piange la sua bacheca, celebra il martire. Celebra un martire. Ne cadono tanti.
“Oggi ho avuto la triste notizia che nella lotta per Mosul è stato ucciso Ormang Sheikh Mohammed. Un grande uomo e il nostro amico che ha combattuto l’Isis per la libertà, per i suoi cari. Non ti dimenticaremo mai. Ci vediamo nel Valhalla”. Jakub Travis Trawiński, Polonia.
“ ‘solo i morti hanno visto la fine della guerra’, Platone. Hai trovato la pace fratello…Fino al Valhalla, ragazzo mio”. Amin, Tunisia.
“Riposa in pace Ormang . Ti sei perso. Almeno sei morto facendo ciò che amavi mentre lottavi per il tuo paese”, Jordan Walker, Stati Uniti.
“Riposa in pace, ragazzo. Stavi sognando la liberta ‘ per i tuoi e hai dato la tua vita per difenderla. Ti sei messo contro la bestia. Che il tuo sacrificio serva da esempio a generazioni. Addio guerriero, possa dio darti il benvenuto al suo fianco. Ormang Sheikh Mohammed”, Prepa, Francia.
“Non lo conoscevo, ma era un amico”, hanno scritto i più. Era vicino. Nella grande battaglia virtuale globale, come nella simulazione delle realtà che oggi viviamo, chiunque mi aiuti a risorgere, è mio fratello.
Riposa in pace, fratello.