Abid Jee e il post sugli stupri. Tagliate la palle, togliete la parola agli uomini marci
Gli uomini marci vanno buttati, presi e scartati. Del resto, volete che sia così? E allora sia. Volete il principio di uguaglianza, e lo sarà. Non c’è nero, non c’è bianco, dunque. Se davanti a nostro Signore e davanti al tribunale illuminista siamo tutti uguali, allora si giudichino gli uomini: eccolo il progresso civile, se proprio lo volete. E se proprio lo volete, buttate gli uomini marci, tagliategli le palle, toglietegli la parola, mandateli via dalla patria, rendeteli inermi, difendeteci. DIFENDETECI, DIFENDETECI.
Gli uomini marci hanno il sangue marcio e la carne piena di vermi. Sono il virus della disfatta, l’essenza stessa della provocazione, lo scatto della guerra che comincia farsi sentire. La parole morire. SEMPRE.
Leggevo le parole del porco, che NON riporterò. Leggevo le parole di Abid Jee, colui che con stupefacente spontaneità, descrive terribilmente le fasi di uno stupro. Solo l’ultimo dei fuochi d’artificio di questo immondezzaio in mezzo al Mediterraneo. Leggevo quelle parole, e ho pensato alla mia compagna, la mia compagna di vita. Colei per cui indosserei la corazza, ora, subito, contro ognuno; colei per cui mi farei ammazzare gloriosamente. E realizzo quanto la perversione, ormai, sia la norma. E la norma, a questo punto, cos’è? Sociologica, giudiziaria. Che peso ha oggi che tutto è relativo? E per chi lo ha? Leggevo e ho pensato di quanto la realtà non esista più, sostituita da una sua (pessima) narrazione, da una sua proiezione. Di quanto sia stata fraintesa la libertà individuale e terribilmente incatenata quella collettiva. E HO PAURA. Ho paura di questo tempo. Ma incarno il principio del fatto che se fosse necessario, partirei subito per la gentile, rinnovatrice, liberatoria battaglia, per essere responsabile di questo nostro tempo, di giustificare l’essenza e la presenza, come i gloriosi padri che ci hanno preceduto sul Monte Grappa o a Lepanto; a Poitiers, o in Ungheria.
Ridurre il potenziale umano nello scrivere la storia è fondamentale discernimento tra militanti e replicanti, uomini e strumenti. La disumanità scoppia in testa come un’embolia e compone la nuova diversificazione di questo tempo di transizione che non lascerà costruzione, ma distruzione su cui ricostruire. E la cosa è grave, molto più dell’abbonamento di Sky rinnovato in ritardo. L’odio per gli uomini e tra gli uomini, è una missione chiara, oltretutto, per taluni. La disumanità scoppia in testa come un’embolia, improvvisa, densa, sale su e fa uscire gli occhi dalle orbite. E prima di stramazzarti al suolo, ti fa compiere, ti fa dire, ti fa estendere l’indicibile. E poi morto, zombie, rimani a terra e risali, col favore delle cronache che, ormai, censurano la parola immigrato (repetita iuvant; fino a prova a contraria, la guerra delle guerre, quella semantica, mi obbliga ad utilizzare il termine corretto, non quello culturalizzato – alla luce di qualche ominicchio attuale che ha la presunzione di stendersi sulla storia e fargli ombra -, ovvero politicamente corretto; ergo, chi si sia temporaneamente o definitivamente stabilito in un luogo diverso da quello di origine, in una singola azione diventa immigrato; chi continua a farlo, migra, quindi, migrante, in continuità), esaltano la nuova lingua politicamente imbrogliata che parla ma non esprime, e pubblicano per intero quella demoniaca bestialità, passata, per giunta, come un semplice chiarimento di come sia uno stupro, secondo l’autore, di quando faccia male, e di come, alla fine, si goda, e si arrivi, magari, anche all’orgasmo. Cosa ci sarebbe mancato in quelle parole? Che la donna debba anche ringraziare il porco che la violenta per averle fatto provare un brio fulmineo che le abbia risvegliato la femminilità sopita dal marito segaiolo e dalla dubbia virilità?
Gli uomini marci vanno buttati; quelli che tentano di imporre il loro medioevo, che è una condizione della mente, oltreché della vita. Stupri che piacciono alle donne, bombole che volano dai tetti, case che si possono occupare, donne che si possono sassaiolare. E chi, non marcio ma in avanzato Stato di decomposizione, glielo permette.
Mi sento impotente. Mi sento impotente perché ogni giorno combatto contro la deriva – ultimo il grido disperato nel mio libro Torniamo uomini, uscito proprio allegato a Il Giornale – ma sono schiacciato dal peso di mille sovrastrutture, imbottite, morbide ma strette, come tante coperte intorno, come lana di vetro in bocca, come ovatta nei fori del naso, proprio come quella che si mette ai morti. Non senti più nulla perché c’è troppo da sentire; non vedi più nulla perché c’è troppo da vedere.
Scrivo, dalle colonne di questo giornale, nei miei libri, in qualche sfogo disperato su un social, ogni giorno. Ogni giorno. Giorno e notte, e non basta mai. Non basta mai per ognuno di noi. Uno strazio, una lamentela, mentre non ci si può pensare indispensabili, per quanto letti e “famosi”, per quanto bravi e battaglieri, per quanto fanti e guerrieri. Non ci si può solo esimere. Impossibile non assistere. Perché qui, a saltare, non è la dicotomia destra e sinistra, atei e cattolici, vegani e carnivori, stronzi o meno, puri e corrotti, laziali e romanisti: è la realtà. È la dissociazione dal reale e l’incontro con il mai pronunciato, con la perversione, nell’epoca che permette di farlo. Permette di aprire la gattabuia di noi stessi. E di dare indulto ad ogni pensiero, di agire sull’emotività assoluta, per gestire i rapporti di massa, sempre più melassa. Alla generazione dell’indignazione è saltata la coscienza e chiude lentamente l’antico artigianato umano, nella più pura delle visioni di Erasmo da Rotterdam: “in definitiva la vita degli uomini nient’altro è che un gioco della pazzia”. Prima di ogni idea, prima di ogni riforma, prima di ogni colore politico e della pelle. È la totalizzazione della miseria, è la desertificazione della coscienza, che si sgretola in piccoli granelli, relativizzata, com’è alla luce della culturalizzazione del tutto, da parte di chi crede di alimentare il progresso che, in questa sede va ricordato, non è fare come cazzo ci pare. La gestione familiare, il cantuccio riscaldato, la moderazione continua, la vita che non tange, sfiora, fino al tramonto, senza far sporcare la blusa.
Culturalizzare ogni cosa si muova, istituendo un continuo ed innovativo punto di vista che sgancia da ogni riferimento comunemente condiviso da anni di esperienze, conoscenze, saggezza e lungimiranza. Che ne è sintesi mistica e pratica, spirituale e terrena, e che viene formato dagli uomini e li forma, generandone il volto, l’identità.
E non basta più chi tenta di riportare lucidità nel dibattitto alla luce sacra del processo culturale, chi tenta di snodare la complessità di questo sistema ponendo nuove strutture teoriche, anziché dogmi totalitaristici, le cui colonne cadono mentre esplode il cielo nero, nelle piccole cose che popolano gli uomini e le donne, gli abitano dentro; cose della grandezza dei mitocondri, così basilari da comporne il tessuto vitale, siano esse l’equilibrio, la capacità di ragionare sopra le cose o la felicità; la fiducia, il buonsenso e il buon gusto o la tradizione che lega gli uomini a delle certezze concrete, testate, che hanno hanno dettato il ritmo e hanno scremato l’inutile vagheggiare, l’adolescenza dei popoli. Prima di ogni idea, prima di ogni pecetta, prima di ogni struttura, prima di ogni organizzazione sociale. Il volto di noi stessi. Non vi è più prima un italiano, perché italiano non è nulla, se non il modo di chiamare il riempimento dei corpi d’Italia. Pari al ripieno di un cannolo, che puntualmente, ci si mette nel culo a tutti.
È saltata ogni logica decenza, ogni considerevole esistenza di Stato, nel senso che fu, che è stato, appunto. E che quando torna a farsi vedere tale, è irriconoscibile, come un padre pazzo perso nel possesso della figlia e della moglie, che mena sganassoni ubriaco, per poi sparire, per poi tornare cambiato, e ricominciare da capo. Non c’è più fiducia, tra gli uomini.
Leggo le parole di Abid Jee, ancora e ancora, non riesco. E mi chiedo: perché qualcuno le ha pubblicate? Perché integralmente? Perché non esiste più un filtro? Chi ci crede così responsabili? Chi ci crede così puri e intangibili? Perché assecondare ogni perversione, raccontandone senza sosta nella rete allnews, dovrebbe renderci i cittadini del futuro? Forse potrebbe farlo. Parole come coltelli bollenti sotto pelle, che frantumano il delicato cristallo che ricopre l’intimità di ognuno; e che indirettamente hanno ferito migliaia di ragazze vittime di violenze. E le donne, tutte le donne. Quel post orribile, il cui autore è stato confermato dalla cooperativa pro-migranti: era un loro dipendente (ecco il testo apparso sulla pagina ufficiale di Lai-Momo Cooperativa sociale: “In merito al commento sulla pagina Facebook del Resto del Carlino concernente i gravissimi fatti di Rimini, abbiamo verificato e confermiamo che si tratta del profilo Facebook di un nostro dipendente. Ribadiamo la nostra ferma condanna delle affermazioni contenute in questo post, in quanto profondamente contrarie ai principi che sono alla base del nostro pensiero e del nostro modo di lavorare. Stiamo prendendo tutti i provvedimenti necessari e confidiamo di potervi aggiornare in merito al più presto”).
È una tortura, una barbarica tortura, dover leggere e capire ciò che accade e sapere di non poter reagire, prima di morire strozzandosi di comunicazione e dei nostri stessi errori cretini! Ma perché? È tutto uno spaccare, un infilare, un dolore, uno star male, un registrare morti e assistere a scuse e giustificazioni; che non è una fase destruens ispirata dal misticismo, dall’eroismo, dall’idea che crepando in marcia si ricostruirà un tempo migliore, come 100 anni fa tra le trincee; è un vortice che ha la forma della faccia del peggior demonio da cui non si esce, da cui non c’è pace. Mentre le piazze sono vuote di ribelli e sono piene di turisti; quelle virtuali esplodono in una danza macabra e imbecille, tra presunzione di conoscenza, invettive, falsità, verità, coraggio e disgrazia, millanteria e pochezza, inni e bestemmie. Un grande ospedale psichiatrico nelle cui stanze c’è chi invoca il Duce tanto perché stereotipatamente lo riporta all’ordine, c’è chi augura il peggio ai poliziotti, ormai ridotti a robot. Chi vorrebbe ammazzare, trucidare, squartare, tritare, modificare, rivoluzionare, cambiare. E invece, amici miei, vi dico che solo una cosa ci sta riuscendo bene: impazzire.
Impazzire disumani. Come carne senza mani, nella fiducia del domani, che nient’altro è che il magazzino in cui vengono stoccati i nostri progetti, i nostri sogni e i nostri migliori propositi. Nulla più.
Il Papa va al contrario (fa il Re, lui, il re misericordioso per i sofferenti altri, i migranti col volto di Gesù, ma per vedere una chiesa piena bisogna forse aspettare il Natale, la meravigliosa funzionalità ripetitiva della Fede messa in aspettativa, rituale e provinciale, magari ben vestiti; farisei che profumano di naftalina). Il Governo va al contrario (non si ha più ragione per essere italiani secondo gli italiani che dovrebbero rappresentare gli italiani; non si ha più ragione in nulla. Ti occupano casa, ti salta la proprietà privata – come risalta Annamaria Greco e riporta Nicola Porro, Magistratura Democratica, che è la componente di maggioranza dei magistrati italiani, la componente di sinistra, dice che bisogna far sì che prevalgano i diritti sociali ed umani su quelli di proprietà. Questo in merito agli sgomberi come quello dell’altro giorno -, ti salta l’elezione, ti salta il bonus, ti salta, sempre se italiano, la graduatoria per la casa popolare e la casa, normale, se oltre ad essere italiano sei pure terremotato. Ti saltano i figli se sei una partita Iva. Quanto potrebbe continuare il gioco dei salti?). La politica va al contrario (troppo poco dove serve, troppo spesso come le serve per ottenere consenso, strillando, divenendo takeaway, accontentando fasce, generando onanistica indignazione e studi di mercato basati tutti sulla facciaccia dei leader, senza permettersi uno sviluppo di modelli culturali, né più il lusso di educare i cittadini, senza dare adito a visioni, senza rispettare i militanti. Altro che agenzia sociologica). La comunicazione va al contrario (mai si può dire che i colpevoli di quel misfatto siano stranieri; non resta che creare un turbinio di turbe turbolente per incastrare qualche italiano, o qualche nazista, o qualche alieno, purché il colpevole sulla carta stampata non sia uno straniero). Il sesso va al contrario, il buon senso va al contrario (ciò che rende questa terra stupidamente rigida, così che al primo scossone della natura o del tempo, tutto viene giù. Non aver paura del terrorismo dicono, abituarsi al terrorismo, dicono, non cambiare stile di vita, dicono. Ma le città sono piene di barriere di cemento, carabinieri, polizia, in borghese e non, nei nuovi raggruppamenti antiterrorismo, militari, mitra spianati, percorsi deviati; affittare furgoni è difficile come defecare correndo, decollare per un’altra meta, rischioso come mangiare la bottiglia dopo aver bevuto la birra.) va al contrario. La virilità, la femminilità, la storia e si arroga persino il diritto di andare rivalutare le scelte etiche di Cristoforo Colombo di 500 anni fa, pertanto vale abbattere i monumenti di quello schiavista, pur essendo gli stessi USA bianchi, ricchi e cotillons che combattono a suon di democrazia, bodybuildermarines, libertà e buon senso (guarda te), i bastardi dell’Isis che distruggono i monumenti della civiltà, che hanno frantumato a martellate Palmira. Tutto va al contrario. Tutto va al contrario, credendosi nel verso giusto; io vado nel verso giusto che però è il vero contrario: tornare agli uomini, prima di ogni idea, di ogni organizzazione sociale, di ogni sovrastruttura. Tornare agli uomini, prima che sia troppo tardi.
Una riflessione.