Basta con la nauseante retorica radical chic: l’uomo nero non è un santo, così come l’uomo bianco
Mi sono stufato di sentirmi sempre un po’ bastardo. Di andare a dormire la sera col pensiero di svegliarmi razzista. Di essere un bianco che “ha tutto” (ho una Fiat Punto intestata e sto in affitto, null’altro, se non una famiglia e tanto lavoro, tante grandi soddisfazioni, e molta stima), alla faccia di chi scappa e non ha niente. Che può aggiungere un posto a tavola ad ogni ora del giorno o della notte in cui arriva l’ospite; magari con l’intenzione di lasciarlo proprio il posto a tavola e mettersi a servire l’ospite, spacciando la cosa per grande ospitalità. Chi di voi lo farebbe alzi un qualsiasi arto. Siamo italiani, e siamo orgogliosi di essere duri di testa. Ci teniamo alle nostre cose e non ci piace essere presi in giro.
Mi sono stufato di sentirmi uno stronzo ingrato perché non ho accolto abbastanza, perché non riesco ad integrare come sarebbe giusto. E chi mi ha stufato, non sono le lunghe chiacchierate sui quadri di Paul Cézanne o sulla prosa di Proust che gli immigrati si fanno sulle panchine di viale Trento a Viterbo, ma quei Lord, che tra una degustazione di mandorle bio dell’Uzbekistan e la revisione del Porsche Cayenne da fare, ci devono insegnare come vivere la povertà e dove deve andare il mondo. Quei bianchi che davvero hanno tutto, quantomeno tanto, alla faccia della mia Punto e del mio affitto. Sono quelli che mi fanno sentire afflitto: quei bianchi che teoricamente stanno sul cavolo ai neri che però sono quei bianchi che vogliono rifilarci la morale di come altri bianchi, quelli che non hanno un cavolo, o giù di lì, la maggioranza nel Paese, siano dei pessimi contadini arretrati, che abbaiano razzismo quando l’uomo nero gli frega una pesca dall’albero.
Ma non sarà ora di piantarla con tutta questa retorica dei colori, che neanche Giotto o Krzysztof Kieślowski, che gli ha dedicato un’intera trilogia, l’avrebbero fatta così lunga? Volete una destra moderna, che sappia interpretare il proprio tempo? Eccola servita in uno spunto, così, tanto per uscire dai soliti meccanismi vecchi come i broccoli di Natale. Sillogismi e stereotipi che sono, pensate un po’, fuori tempo e fuori luogo come la zia zitella, ormai 70enne, che, al matrimonio di tua cugina, ti chiede se gli puoi presentare quel bel fustacchione di 25 anni, amico tuo. Silenzio, risate, tenerezza e un rigurgitino acido: a 70 anni cerchi il 25enne. E finora cos’hai fatto?
(IN FOTO, sotto: vecchia zia zitella che ci prova col 25enne)
Ecco finora, gli uomini bianchi, architetti, sposati con una psicologa che fa la volontaria per le ONG, cosa hanno fatto per questo stivale scuoiato buttato in mezzo al mediterraneo? E cosa hanno fatto per garantire seriamente il processo di integrazione tra le vie della loro città, oltre ogni aspettativa partitica? E cosa hanno fatto per essere migliori di noialtri? E cosa fanno, questi superbi uomini bianchi, quando un uomo nero, uno stupido fuori controllo, li importuna? Li carezzano dolcemente sul viso come il Poverello d’Assisi coi pettirossi o si divincolano spaventati, chiamando la Polizia (quella violenta, sudicia istituzione fascista, a parer loro, che li sgombrava alla Sapienza quando si laureavano col 6 politico), e fregandosene del colore della pelle per arrivare al verdetto: non è l’uomo bianco che provoca, né l’uomo nero che reagisce. Né viceversa. È l’assoluta mancanza di sicurezza tra le strade d’Italia. E si torna tutti uomini. Alla faccia di Gino Strada e Rula Jebreal.
Ecco Rula Jebreal, la giornalista-modella che sponsorizza Carpisa e che se è fortunata, come dice un mio amico, può vincere pure lo stage gratuito presso di loro. La stessa paladina dei diritti migranti interplanetari che si lamentava a muso durissimo, con Nicola Porro in un programma tv l’altra sera, del fatto che l’uomo bianco sia davvero arrogante e pure “sessista”. Caspita, quanto è arrogante l’uomo bianco. Non si riesce mai a farlo finire di pensare!
Forse a Rula l’uomo bianco non piacerà, forse, eppure viene da chiederci, i suoi bonifici gli piacciono? A giudicare dal suo matrimonio con il banchiere americano Arthur Altschul Jr., figlio di un partner di Goldman Sachs, uomo bianchissimo, non si direbbe. Ah, che bella lezione di stile sulla povertà. Mi ricorda quell’adagio montanelliano sulle sinistre che amano così tanto i poveri che ogni volta che vanno al potere li raddoppiano di numero. Mi ricorda l’uomo bianco architetto sganciagrana e la psicologa volontaria delle ONG che fa yoga, col figlio alla Sapienza la mattina, e al centro sociale il pomeriggio.
Repetita: Volete voi una destra moderna, che sappia interpretare il proprio tempo, senza scadere nello stereotipo dell’orango inferocito tutto Hitler e Salvini? Eccola servita in uno spunto. Giusto uno spunto.
Né bianchi, né neri, ma uomini, nel nuovo mondo delle guerre tra poveri. Uomini o replicanti, uomini o maschi, biologici, nulla più. Qui sia il terreno della disfida odierna. Il resto è opinione, e l’opinione è soggettività. E la soggettività è il seme del relativismo assoluto, intesa anche a livello di ente, non solo personale; la soggettività è l’espansione esagerata dell’Io. La filautìa, il culto smisurato per se stessi, genera, in senso lato, egocrazia, la legge dell’ego. E si rafforza il processo individualistico, spacciato per comunità. Il cavolo! Mettendo a fianco più individualismi, e poi tutti in fila, chi di qua, e chi di là, non si fa popolo, figuriamoci se si crea una coscienza nazionale, una comunità. La sagra dell’Io sta infestando le masse. E NON si può dar ragione a tutti, troppi Io non possono coincidere. La pace resterebbe solo una splendida chimera che si allontana nel bosco fumoso e fitto del parere (non sempre qualificato). Al grande Io, figliastro di quarantaquattro individualismi in fila per sei col resto di due, sarebbe da sovrapporre il grande NOI.
Né bianchi, né neri, ma uomini, nel nuovo mondo delle guerre tra poveri. Uomini o replicanti, uomini o maschi, biologici, nulla più. Valutiamo gli uomini, non solo gli occidentali riottosi, bigotti, arretrati, bianchi e razzisti. Ma anche i fuggitivi, gli immigrati, i disperati. Valutiamo le donne e gli uomini. Senza ricorrere alla polizia segreta, senza ritorcere nulla contro nessuno, solo per orientare il dibattito e riportarlo verso un barlume di realtà. Così, manderemo in crash il bigottismo di un certo ambiente che dei doni del multiculturalismo sciapo e superficiale sta facendo bandiera, a costo di reprimere e sostituire tutto ciò che già esiste (giusto da qualche secolo di civiltà). A partire da quell’Illuminismo, finendo alla “migliore” accezione sociologica comunista per cui gli uomini, sono sempre tutti uguali. Che poi, a ben pensarci, la diversità è ricchezza, il fine; e la civiltà come complesso culturale, esperienziale di una comunità nel persistere del tempo, fondata su percorsi e visioni comuni ed originarie, come chiaro volto di un’identità storica e spirituale, ognuno la propria, è il fine. L’uomo, quindi, è il fine, non il mezzo, almeno per quelle che vogliono chiamarsi “destre”.
Che poi, a ben pensarci un’altra volta, “ma perché un ingegnere deve essere uguale a un muratore, madonna d’un dio, solo i coglioni solo uguali l’uno all’altro”, urlava Tognazzi nella parodia del fascistissimo colpo di Stato “Borghese”, in Vogliamo i colonnelli, di Monicelli. In quel 1973, anno di uscita del film, in cui il PCI e vari fratelli maggiori e padri ispirativi andavano forte, in cui c’era molta più sinistra, degna d’un certo rispetto, nella società politica e civile. In quel 1973 in cui, però, lo scontro era sul piano delle idee, finanche a pistolettate, ma mai ridotto a pagliaccesco moralismo sbrigativo e necessario.
(IN FOTO: Ernesto Che Modello, emblema del bianco architetto, con moglie etc. , con figlio etc.)
L’uomo bianco architetto, moglie psicologa-volontaria ONG, figlio Patek Philippe Nautilus al polso-centro sociale, schifa quello bianco sfortunato. L’uomo nero, anche. È un classico western, molto occidentale, rapperistico americano: “fratello a me non lo dici”. L’uomo bianco (sfortunato) è sempre colpevole di un suprematismo aprioristico, secondo l’uomo nero. Forse perché ricco, forse perché ha inventato l’automobile, la lavatrice, il diritto romano, la stampa a caratteri mobili, la democrazia, lo spazzolino. Chissà… Eppure, la sua civiltà, la sua legge, le sue città i cui parchi corrono tra le vie, e le sue panchine, la sua assistenza, e soprattutto i suoi bonifici, piacciono eccome all’uomo nero (come anche all’uomo bianchissimo meno sfortunato, sia chiaro). Nella migliore accezione di uomo, le carte che entrano in gioco sono altre.
Misuriamo gli uomini, non cadiamo più nella trappola , nel turbinio rabbioso. Facciamoci trovare preparati. I furbi, onorevoli, rispettosi, dignitosi, carismatici, aggressivi, spirituali, spontanei, probi uomini. Proviamo a tornare uomini, come ho scritto nel mio ultimo libro, Torniamo uomini, e a ragionare nuovamente sul dramma dell’uomo nero che, disperato, chiede aiuto all’uomo bianco. Che è giusto che l’uomo bianco gli dia, e subito. Com’è giusto che l’uomo bianco si ricordi semplicemente chi è, non del fatto che egli è bianco e l’altro è nero. E di conseguenza vada a regolarsi.
Su questo vige il silenzio dell’oggettività. E su quel terreno ancora si può risorgere a decenza, stoppando di petto e calciando fuori dal buon senso, l’asfissiante relativismo imposto per legge e cultura. Perché è un terreno di valutazione sociologica che equipara, frena gli istinti individualistici, e riporta lentamente alla realtà: vigliacco l’uomo che violenta e maltratta la moglie? Vigliacco il bianco e il nero. Vile l’uomo che abbandona la guerra e rifiuta di combattere per la propria terra contro la corruzione, contro gli eserciti del totalitarismo, coniglio colui che scappa? Vile e coniglio l’uomo bianco e l’uomo nero. Sì, ma anche il nero. Falso da disprezzare, l’uomo bianco che chiede aiuto economico, ne riceve per generosità, ma ha il conto in banca che gli permette un lungo viaggio? Falso da disprezzare l’uomo bianco e l’uomo nero. Senza ritegno l’uomo bianco che, ospite a casa di amici, schifa il pasto a lui destinato, si lamenta delle portate e dopo pranzo si spaparacchia sul divano e si mette a dormire russando e senza pantaloni? Senza ritegno il bianco e il nero. E la lista, potrebbe durare a lungo.
Non si capisce, infatti, su quale metro di giudizio, secondo gli uomini bianchi architetto e psicologa etc. etc., l’uomo nero sarebbe, a prescindere da ogni valutazione approfondita, meglio di noi.
Il dramma, è che ci stiamo perdendo gli uomini. In tutti i sensi: in senso letterale e non, dai modelli di virilità assoluta (in ricordo di quel vir di romana concezione: “provvisto di tutte le sfumature possibili del ‘Mann’ – affermava Georges Dumézil – eroe, altrettanto che marito, individuo”. E guerriero, difensore, nonché riferimento della famiglia, come continuatore e capostipite, il pater familias, punto saldo dei figli , con cui condivideva ritualità, che è eredità ed esempio per il cittadino futuro, fin dalla nascita, come il tollere liberos, l’atto di sollevare il figlio appena nato da terra per riconoscere la patria potestas. “Roma ha creato virtus, nel senso di coraggio virile”), da Buzzanca e Giannini negli anni’70, ai modelli nelle passerelle, in corsa verso la neutralità, non più padri generatori di un rito, non più legati all’origine coraggiosa e nobile, ma semplici inseminatori di cui, fra qualche anno di scienza, si potrà fare a meno. Ma ci stiamo perdendo gli uomini anche dal punto di vista
Uomini freddi, asettici, eternamente in compromesso, che bastano a se stessi, sfruttati e calcolatori. Che non si dedicano più l’esistenza. Che inseguono la convenienza, schifano ogni legame con la spiritualità, utile ad indirizzarne, magari, una sana moralità (Cristo s’è fermato in Europa, ha fatto l’autostop ed è andato in America Latina). Che sia religiosa o mitologica. Sia l’uomo bianco che quello nero, provengono dal mythos – che per Veneziani “è un viaggio nelle profondità del presente, alle radici della realtà” -, dall’eco dei canti e delle danze dell’epica, siriana, africana, romana, greca o norrena (canti, danze, affreschi che ci restituiscono un uomo vicino alle proprie funzioni, sempre per dirla con Duzémil: sacrale e giuridica, la funzione guerriera e la funzione produttiva. Canti, danze, rituali tribali e dipinti, che ci riportano a storie epiche di armature indossate per difendere il villaggio e il confine. L’Odissea, L’Iliade, l’Eneide, la mitologia norrena. L’Epica che ha raccontato l’uomo e il senso di esserci, che ne ha riempito, in qualche modo, il destino altrimenti lasciato al dubbio e alla caduta casuale dei fulmini, e agli sproloqui lontani dei profeti. Ben prima di Cristo; storie di fuochi mai spenti per millenni, come quello sacro di Vesta, tenuto acceso nella Roma che ebbe un senso agli occhi della storia, per mille anni. Continuamente attizzato fino alla caduta dell’impero. Mantenuto, come sacro, luce e calore che fonde l’uomo agli dei, ed illumina la via di una comunità di legge e di saggi, di uomini e guerrieri. Storie di guerrieri, di figli, di madri, di donne da proteggere).
Uomini che non hanno voglia, né tempo di sviluppare un proprio pensiero critico, di difendere il confine e la radice, di tornare a sviluppare una propria coscienza razionale e di limitare quella irrazionale. Che sfiorano la vita perché non li tanga, nella speranza di arrivare come ombre fino al tramonto. Che si rifugiano nel dramma dell’altro, nella massa melensa. Dal mediterraneo, in Italia e poi chissà dove. Uomini che non sono più riferimento, grandi assenti della contemporaneità, che si fanno corrompere con poco, che si vendono per poco. Che scendono a compressi. E che quindi, alla luce di un senso di continua sopravvivenza imposta (che tu sia una partita Iva o un migrante, ognuno con i proprio crismi e disperazioni), di culto estremo del materialismo, adeguano la propria dignità a ciò che procuri loro meno sforzo, indirizzando male il proprio sacrificio: che tu sia un migrante che scappa da una guerra (che non sempre c’è, basta documentarsi sul Paese d’origine), che sceglie lo sforzo dilaniante di percorrere, rischiando la morte, una tratta piratesca nel mediterraneo con una barchetta umiliante, che tu sia un disoccupato in fila per la casa popolare da anni, due figli da sfamare e un grave male a farti soffrire, che anziché impegnarsi, ejaculando rabbia onanisticamente, nel ricevere tanti like ad un post di indignazione, dovrebbe andare ad occupare ogni via, ogni piazza, come ultima missione di vita, gridando con tutta la forza.
Come mai, quei possenti ragazzoni, quasi tutti maschi, che giungono in Italia abbandonano le proprie donne in guerra. Prendete e leggetene tutti. Uomini, tutti uomini. “Nonostante un aumento negli ultimi mesi, le donne che approdano in Europa sono solo il 32% del totale dei migranti e in Italia la percentuale scende al 17%, a ulteriore dimostrazione che il flusso verso l’Italia è composto soprattutto da migranti economici”, riporta Giuseppe Marino qui sul Giornale.
E come mai, noi figli ingrati dell’impero romano, della civiltà occidentale, della cristianità, abbiamo completamente dimenticato, il senso originale, cattolico e pagano al contempo, di pietas, religio e humanitas. Ciò che forma fin nella radice, l’uomo mediterraneo, prima ancora di essere conservatore, progressista, liberale, prima ancora di essere organizzato socialmente.
Anche noi, in questo modo, fuggiamo dalle responsabilità, da noi stessi, dalla guerra con e contro noi stessi, tra l’uomo bianco architetto etc. e l’uomo bianco sfortunato; tra chi ama e chi odia gli uomini, siano essi bianchi, neri, grigi. La stiamo perdendo nella dimenticanza, questa nostra guerra. Perché abbiamo ritenuto che innaffiare le radici sia tempo perso. Meglio andare su Facebook a ricordare agli altri uomini di farlo.
Quanto pesa al grammo la sofferenza. Quanto pesa al chilo la differenza. Chi ci sta mettendo la bilancia?