Che Guevara di destra o di sinistra? Basta crepare di passato e banalità! Il presente ha bisogno di noi: meno archeologi e più esploratori
(IN FOTO: 2017. Silvana e Luigi dedicano un pensiero alla morte di Ernesto Guevara, avvenuta 50 anni fa esatti. “Degno” caso di non aderenza al presente)
La civiltà del necrologio. Che guarda sempre l’orologio, perché ha un pessimo rapporto col tempo. Tempo, che deve dare per forza qualcosa, qualche frutto tangibile (poco importa se maturo, fradicio o ancora acerbo), ora, velocemente: in fretta! La civiltà del necrologio che vuole andare troppo avanti, su Plutone, non sa giocare al presente, – 5 milioni di poveri in Italia guardano in tv la sonda arrivare sul pianeta inesplorato -, e vive di lontani ricordi, come ultimo punto di ripristino utile, nel caso in cui, il troppo progresso, mandi in crash il computer.
L’adorazione dei morti, che offre un macabro spettacolo e ci conferma che siamo vivi, quantomeno biologicamente. L’adorazione dei trapassati, in ogni telegiornale che elenca cadaveri e negatività come missione giornalistica primaria, che sia nella cronaca della quotidianità, dove un omicidio viene raccontato, con la famiglia riunita a tavola all’ora di pranzo, senza filtri, dove il verbale di Polizia di uno stupro viene pubblicato senza la minima censura, e, al contempo, nel lato più profondo della vita, dove ogni vecchio padre, torna in vita pur non volendone sapere, troppo spesso. E non nella direzione dell’ossequio, ma nel citazionismo, nel nozionismo da social network, nella lavanda della coscienza di guerrigliero e militante, nel compitino per casa. Nella dimostrazione di conoscenza, nell’esercizio di stile, e soprattutto, nel rimpiazzaménto di un vuoto mai colmato di un ponte col presente.
Litigare sulla paternità del messaggio e dell’operato di Ernesto Guevara (di sinistra, da sempre; forse di destra, chissà. Più di destra che di sinistra, di sinestra, di sotto e di sopra), come del resto di molti altri paladini, è un esercizio di stile lontano dalla realtà, inutile, incomprensibile ai più, che non filtra nessun significato utile a sfangarsela da questo momentaccio disgraziato. Non crea soldati, né rende giustizia a chi è già al fronte. Eppure la realtà è il terreno di confronto dell’attualità; per cambiare le regole del gioco, non ci si può allontanare troppo da essa, rischiando di perderla di vista.
Il presente, ‘nnaggia a lui! Non veniteci a rompere le palle con la storia della storia che è finita. Come quelli convinti che dopo i Beatles il nulla. Gli unici ad aver veramente fatto un’orgia con le sette note ed aver procreato il nichilismo, anziché la Bellezza da cui trarre ispirazione. Ma per carità!
L’idea del negativismo spinto della filosofia, tanto di voga odiernamente, così stracciona e straccia vesti, fa venire l’acidità di stomaco! La solita questione di punti di vista.
Un mix letale a colazione, pranzo e cena, del non riuscire a stare al mondo. Nostalgia del presente, per dirla con Marcello Veneziani, sapendo di vivere il proprio tempo, ma di non sentirselo mai proprio del tutto, di non esserne possessore o partecipe, ma solo spettatore. Nel magma si plasma una pappa poco nutriente che ci porta ad osannare il mito di ieri, ma non quello essenziale dell’altro ieri. Gustose cucchiaiate che ci fanno dimenticare, ad esempio, cosa sia stato il sacro fuoco “di Vesta”, a perpetuo rinnovamento di un’identità generatrice e ardente, il suo essere rimasto acceso per anni e anni, superando l’odio e l’invidia, le mani sporche, corte o eroiche degli uomini che ebbero CURA di tenerlo vivo come archetipo, ma ci fa arrivare all’orgasmo nel ricordo Ernesto Guevara, di cui oggi ricorrono i 50 anni dalla morte. Ci fa dimenticare facilmente la Grande Guerra, a cento anni esatti, e la fondazione viva della Patria, lo sforzo di una terra di diventare nazione, più di sempre, forse, e ci fa vivere come essenziale il (rinnovato) mito del femminismo applicato, ad esempio, come frontiera di un’irrinunciabile e giusta civiltà, tra il prestito di un utero e l’ossessione della donna, non la sua splendida natura, da preservare, nel linguaggio, nella giustizia e nel cuore complessivo, come una marmotta in via d’estinzione, non più femmina, né madre, ma pretesto politico (quote rosa?!) e ideologico.
Un post, un santino, un ricordino, un pensierino, di ecclesiastica memoria, e si sciacqua la coscienza. Si pulisce il tempietto con la scopetta, come con le tombe dei nonni al cimitero, e si è fatta cultura. Anche per oggi. Anche per oggi, abbiamo portato a casa il souvenir di un tempo che fu e che, francamente, oltre all’ispirazione più elevata, non ci aiuta neanche per il cacchio a uscire dalle complicatissime e schizofreniche trame del presente. Quello che è ora. Hic et nunc.
Così, solo un pensiero che è un’evocazione. Nulla più.
Riecco il pippero di servizio, obbligatorio, sull’attualità di Guevara, di Cristo, di Goffredo di Buglione, di Giordano Bruno, della mummia del Similaun, et similia. Chi ha scritto la storia è sempre attuale, in qualche modo. Perché è riuscito ad assurgere all’Olimpo dell’esempio. L’esempio che è traduzione di intenzioni, azioni, pensieri, ispirazioni, epicità, magari, etica ed estetica. Conseguentemente capace di divenire universalità. Non sempre, certo, ma la maggior parte della volte (un premio Nobel attribuito alla Mogherini, non sarebbe stata storia, ma lucida casualità). Quanto ritorna d’attualità l’eroismo pragmatico, quasi divino, del paladino Don Giovanni D’Austria, sunto di uomo integro da consegnare al futuro, di coraggio eroico, capace di un gesto che ha aiutato la determinazione della civiltà europea, anziché la sua sottomissione preventiva, proprio a due giorni di distanza dalle celebrazioni della battaglia di Lepanto? Attualità piena, in uno dei tanti (ri)corsi vichiani in cui l’Islam minaccia l’Europa (semi)libera e autolesionista, ma pur sempre (semi)libera.
Ciò che mi preoccupa è che per i miei coetanei archeologi la porta per l’attualità sia (troppo spesso) il passato. Il presente sia sempre una rilettura, difficilmente una lettura nuova.
Come molti altri, Jan Palach ed Ernesto “Che” Guevara, ad esempio. Simboli che possono nutrire l’ispirazione. Che ci hanno sfamato (i miti, in senso lato. Per quanto, francamente, con Guevara non abbia mai mangiato allo stesso tavolo, né mai lo farei!). Ma io imploro la mia generazione di prendersi il proprio tempo, di scrivere il suo testamento, di interpretare il presente, di lasciare eredità che parli di se stessa ai prossimi, che non sia, solo, la trasmissione museale di un pacchetto di riferimenti, quasi giunti a scadenza come lo yogurt in fondo al frigo, da consegnarsi pieni di polvere. Alcuni necessari, altri meno. Certamente attuali, ma non unici ed essenziali. Non abbiamo, forse, ispirazione del nostro essere storia viva, hic et nunc. Non abbiamo, forse, colonne del presente da osservare, custodire, da seguire e rendere di pubblico dominio quale ispirazione fondamentale, quel plotone di soldati che salverà questa civiltà, spenglerianamente parlando?
Nell’abitudine alla hall of fames s’impigrisce la battaglia all’epoca, si giustifica ogni assenza al fronte, s’accende il mito e si spegne il tempo, la continuità, la contestazione. Si perdono gli anticorpi generazionali al disordine, che poi, trabocca (necessariamente?) in una nuova volontà e fase di creazione.
Quanto è alto il rischio di ritrovarci voyeur poco coraggiosi, sacerdoti di un temp(i)o che fu? Pare normale e del tutto sano, riuscire a ricomporre il tempo che abbiamo davanti rileggendo i tasselli di un mosaico di autori, pensieri, ispirazioni, filosofie, già composto prima di noi. Tutto ciò ci aiuta a ricostruire l’oggi e di capire il suo modo burbero di entrarci dentro ogni volta. Eppure, però, bisogna sforzarsi altrettanto, di trovare nella contemporaneità dei riferimenti accettabili e non fugaci, che abbiano lo stesso compito ma con la dignità di essere presenti, e rintracciabili, per non vivere la voglia di farcela di ieri, che non si riesce ad applicare oggi. In un bagno di distacco dalla realtà e dal tempo, di frustrazione ed evasione.
E nella fretta della celebrazione antica, l’eco di un Dominique Venner si spegne vergognosamente nella miserabile giovane senilità o nel vizietto di sciacquarsi la coscienza del presente nello specchio del passato. Come anche, forse, quello di un Avram Noam Chomsky, per essere oggettivi.
Mi chiudo nel sogno di trovare meno archeologi e più esploratori!
Solo uno slancio, una suggestione. Nulla più.