Basta filtri politicamente corretti. È ora di parlare coi migranti, non dei migranti. È ora di capire chi sono e cosa vogliono dalla storia
Il Santo Padre parla di loro. Venera le Veneri. Li offre come protagonisti al mondo della Fede persino nella messa di Natale e nella successiva del nuovo anno. Intravede in Gesù Cristo una sola guancia. La guancia della tolleranza, dell’accoglienza, della Misericordia. L’altra faccia dell’Altissimo, quella del timor di Dio, del Vangelo, della difesa della Casa, e della Chiesa, è buia. E troppo lontana dagli occhi del Pontefice.
La politica parla di loro. Li pone al centro dei propri desideri erotici, in un’estensione estetica senza fine
La società civile parla di loro. Gli organizza mostre, opere d’arte – come la recentissima Pietà di Fabio Viale, in cui la Vergine Maria non tiene più in braccio il Cristo, ma un migrante nudo, in carne e ossa -, premi, pensieri, concerti, squadre di calcio, corsi specifici, da quelli di Boxe, come a La Spezia, a quelli pre-parto, come in Friuli.
Ossessione istituzionale e ideologica. Che tacciano pure i popoli d’Europa, in queste frange confuse della storia, stretti nella sovranazionalità, spauriti dal terrorismo, confusi dalla liquidità del sesso, induriti dalla mancanza di Dio, abbrutiti dalla sparizione della Bellezza ai bordi delle strade, incancreniti dalla materia, dal tocco, dalla tangibilità.
Chiunque ne parla, chiunque li raffronta, li pone in statistiche, con la certezza, secondo la narrazione di questo mondo, che servano, come acqua agli assetati. Servano a dare un’iniezione di (s)fiducia alla genti europee, a farle rendere conto della propria grezza rozzezza, nell’essere ancora unite e legate a dei ritmi umanamente sostenibili, a dei suoni, a delle origini, a delle visioni. Annodati in una comunità, in una Tradizione che parla di loro e che li connette ai padri e ai contemporanei, finanche a loro stessi. Servono a rimpolpare genti, come quelle italiane, che non fanno più figli. Per i più arditi, addirittura, a pagare le pensioni, o ad insegnare civiltà all’università della vita, come quella di Facebook.
Immigrati. Perché stiamo perdendo la battaglia semantica, senza alcun istinto razzistico, ma con una dose salvifica di attaccamento alla realtà. Ma ancora un briciolo di lucidità forse rimane. Coloro che da una terra arrivano, si trasferiscono ad un’altra. In una statica brevità. Al contrario di migranti, che continuano a migrare, da una terra, arrivano ad un’altra e poi ad un’altra ancora, e ancora. Fino a cosa, a quando, a dove, non si sa. In un senso di continua dinamicità.
Ebbene, ora, hic et nunc, pongo la mia breve e insufficiente virgola nel grande libro della storia. Così come voi. Protagonisti, non spettatori. Integrali, non replicanti. E allora ho diritto di pormi delle domande. Per fare la mia porzione di orizzonte.
Immigrati, migranti. Transitanti.
Hanno sofferto tanto? Voglio parlare della tanta sofferenza. Hanno viaggiato? Voglio parlare del viaggio. Hanno fame? Voglio parlare della fame. Non gli sta bene l’Italia? Voglio parlare del perché non gli stia bene dell’Italia. Volevano esattamente questo Paese? Voglio cogliere ogni stato affettivo, anche il più delicato. Hanno fatto la guerra? Voglio sapere tutto. Come l’hanno fatta, quando, per quanto, con quale armamento e con quale schieramento.
Quanti morti hanno sulla coscienza, se li hanno. Morituri mediterranei. Morituro, Mediterraneo.
Piangono la patria? Voglio sapere perché l’hanno lasciata così brutalmente.
Mi sono rotto le palle di sentir parlare dei migranti. Migranteggiare, mercanteggiare.
Siamo maturi per sentire l’aria che mi scorre in faccia senza una maschera.
Io voglio sentir parlare coi migranti. Mi sono rotto le palle di sentirmi sostituito, e non so neanche da chi. Io che ho trent’anni, e che un figlio, ora come ora, posso solo sognarlo, pur lavorando come senza sosta, mentre devo cogliere delicatamente il fatto che saranno loro a riempire l’Italia di figli? Mi sono stancato di sentirmi un villico, uno stronzo, uno che ha tutto, solo perché occidentale bianco, e quindi, per mia natura, oltranzista, xenofobo, inferiore in quanto a capacità di aprire la propria anima, nella società del clitoride, che gode di ogni sensibilità indotta.
Chi dovrei integrare? Lo stereotipo fornito per legge, o l’uomo?
Immigrati, viaggiatori, transitanti. Voglio vederli assumersi le proprie responsabilità. Constatare quanto hanno capito di essere nel civile Occidente, in un Paese con delle sensibilità diverse, delle esigenze pregresse, delle ferite incancrenite mai sanate, piene di vermi, di lividi; constatare se capiscono chi sono e dove sono, se intuiscono un’altra Legge. Un disagio. Se hanno voglia o ci stanno gabbando tutti. Se sono un frutto della più strategica casualità, o di una sottomissione ideologica. Capire cos’è per loro Dio, cosa la speranza, cosa la danza della propria terra, cosa l’identità, e il futuro. La dignità di un uomo. Cos’è la casa, chi è a casa. Capire se capiscono il nostro disagio.
E non siate banali. Perché il fenomeno ci vola sopra le teste. Non abbiamo la possibilità, in un sistema che alleva ogni capriccio e lo estende fino a farlo diventare un diritto, di parlare con loro. Paradossalmente. Ci fidiamo della delega che offriamo ogni volta.
Un uomo può spiegare se stesso, se non esiste diversità. E allora: siamo tutti uguali, secondo la narrazione di questo tempo? Siamo tutti degni di nota? Perché non si può farlo? Se tutto è sincero, e non c’è nulla da nascondere, perché il dialogo con loro è sempre filtrato da un’associazione, dal governo, da un intellettuale, da un programma tv, da una povera vecchiona vietato scopare o da un portatore di sandali ex PCI?
Perché, se veramente si cerca un’integrazione che non sia una sostituzione, non si crea, secondo effetti di legge, un’associazione di rappresentanza di migranti, immigrati, transitanti che dialoghi con la società civile, e spieghi le sue ragioni, le ragioni di questa esistenza duplice?
Tutto è filtrato. Mentre viviamo palesemente l’illusione della partecipazione. La presenza nella globalità, che rimane virtuale, altrimenti troppo estesa per poterci comprendere tutti. Come numero e come figura. Pulita la coscienza di bravi cittadini, magari su qualche sito internet di terz’ordine, abbiamo realizzato noi stessi, delegando. Delegando la nostra coscienza critica alla politica, la nostra capacità spirituale di lettura degli uomini, al sermone di un Papa politico. La nostra volontà di interpretazione del reale, a qualche media, il cui messaggio ci aggrada, mentre si arricchisce. Click dopo click.
Nel silenzio c’è la sostituzione. Nel dialogo l’integrazione impossibile. E che si parli, allora.
Immigrati. Sono o non sono uomini pieni? Sono uomini, anch’essi, del proprio tempo, o pupazzi di un’epoca, ombre di un’era, transito perpetuo, adattamento al nuovo dinamismo, pionieri della nuova precarietà?
Non cederò la mia terra, se non hai un nome scolpito nel marmo di un sacrario. Non renderò la subordinazione antropologica, un declassamento necessario. Io non voglio sentirmi declassato! Almeno vorrei capire, vorrei poter leggere il mio tempo. Ed eccomi qui, quindi, con onestà, a chiedermi cosa s’intenda per integrazione, visti i presupposti ideologici e le stramberie da campagna elettorale con cui abbiamo a che fare ogni giorno. Necessariamente, essa, dovrà essere sostituzione, evocando il senso proprio di Renaud Camus nel suo Le grand remplacement, fusione di due civiltà, o una dignitosa e momentanea ospitalità?
Io voglio sapere, io voglio capire. E dato che noi stessi stiamo scrivendo la nostra porzione di storia, è dato interrogarci, è nostro diritto, fin nella natura delle cose, in quelle più semplici, che finiscono per reggere il tutto, anche le strutture più complesse, dalla foglia, al figlio.