Anche Italo in mano agli stranieri. L’Italia, un motel per prostitute. Arrivi, paghi, godi e te ne vai. Non ci resta che vendere le macerie di Amatrice.
Solo alcune, disarmate riflessioni…
In piedi sulle macerie. Noi ci restiamo in piedi sulle macerie. Finché non venderemo anche quelle. E quelle, da Amatrice in giù, ne abbiamo tante. E sono tutte ancora belle accatastate. Non ci resta, probabilmente, che tornare a fare quello che ci è sempre riuscito meglio. I piccoli paraculi che venderebbero l’aria in bottiglia, oppure speculare su Dio, vendendo reliquie.
Nell’epoca in cui tutto si misura secondo il profitto, il tocco, e il bonifico è la nuova versione dell’esaltazione mistica del santo laico, in cui la forza si misura sul liberissimo mercato, l’Italia rimane un’espressione geroglifica, ovvero, criptata e incomprensibile.
Cento anni dopo, passati per Olivetti, Esselunga, per Enrico Mattei, Bernardo Caprotti, e per tanti casi simili, il Piave torna a mormorare il nostro amor patrio. Al contrario: vendi tutto allo straniero.
Insomma.
In Italia si crea una grande azienda, la si riempie di debiti e la si vende, magari al 100%, agli stranieri.
Così come Italo Treno passa agli USA. Al 100%. Quasi 2 miliardi per l’intero capitale sociale, compreso risanamento di 400milioni di debiti, e addio all’amor patrio.
Tra manodopera straniera che prende meno, lavora il doppio e non rompe i coglioni (dal cantiere del paesino, fino al “caso Farinetti“), lavori che gli italiani facevano già benissimo, ora rinforzati anche da stranieri, come spacciare, tra svendite e fallimenti, per altro, guai a ripensare ad un salvataggio nazionale delle aziende, un aiutino di Stato. Se non si vuole essere tacciati, nello stesso istante, di fascismo, razzismo, satanismo e sodomia.
Specie da parte dell’altro versante delle “idee”, quello che ha reso una riserva di caccia del libero mercato e dei grandi capitani delle multinazionali, dei grandi investitori, degli speculatori, approfittatori, farisei, che hanno mandato in soffitta l’etica nella finanza, per dirla con Ettore Gotti Tedeschi – evocando quella “degenerazione morale degli affari”, tutta italiana, dovuta, secondo un’interessante chiave di lettura, che va dal piccolo lavoratore, alla grande azienda, “a quel relativismo culturale che ha incrinato le basi della morale cattolica e che ci ha convinti che tutto è lecito” -, questo Paesino in miezz ‘o Mediterraneo, tutto baffi neri, pizza, mandolino, e colonizzazione felice.
Perché questo è: una colonizzazione felice. La nostra. Abbandonate le armi da fuoco, arrivano quelle da soldi, in Europa, a generare lentamente tante vittime. E non si capisce bene cosa sia il progresso, se non è a dimensione d’uomo. Addio cervelli, addio capitali. Siamo diventati una stazione, un parcheggio a ore. Nel peggiore dei casi, forse il più realistico, un motel da mignotte, dove arrivi, prendi ciò che vuoi pagando, godi e te ne vai. E poi si ricomincia.
Il 2017 è stato un altro anno nero per il made in Italy. Nonostante i fallimenti nei primi tre trimestri di quest’anno siano diminuiti rispetto allo stesso periodo del 2016 (1.396 in meno), secondo i dati Ocse e Cribis rielaborati dal Centro Studi Impresa e Lavoro in una ricerca pubblicata a novembre, c’è poco da rallegrarsi: il 2017 infatti sarà ricordato soprattutto per il tramonto di due grandi realtà italiane, Alitalia e le banche venete, e il fallimento di Borsalino, lo storico marchio di cappelli. Secondo Panorama.
Così Fiat, Borsalino, Melegatti, Alitalia, banche venete. E ancora, negli anni, lentamente, come un’erosione costante: Italcementi, Parmalat, Galbani, Invernizzi, Locatelli, Edison. E ancora Gucci, Bottega Veneta, Valentino, Gianfranco Ferrè, La Rinascente, Pomellato, Pirelli, Bertolli. E tante, tante altre aziende italiane, negli ultimi 15 anni, volate via. Tra le mani dello straniero, che sul Piave ha costruito un’autostrada.
Tutto qui migra, in entrata e in uscita, in cerca non si sa bene di che cosa, dato che non siamo una delle economie più forti d’Occidente, e abbiamo grosse falle nel mercato del lavoro, nella giustizia e nell’ambito sociale, culturale e assistenziale, necessitanti di integrarci ancora tra di noi, magari tra nord e sud del Paese. Dopo i cervelli in fuga, ora i capitali. Dal grande al piccolo; dall’azienda importante, al rumeno o al cinese che lavora in Italia e spedisce il grosso ai familiari nel suo Paese.
Un albero di bacche. Prima rigoglioso di frutti, poi, spelacchiato, piccolo e triste, che si sforza di dare nutrimento alla creature che ad esso si nutrono.
Così, ci vantiamo del made in Italy, quasi come unica esclusiva di fama, di fame, rispetto ed esistenza in questo mondo dedito al culto estremo della materia, dove se non sai far di conto, puoi avere tutti i Rinascimenti, i Dante, i Verdi, i Caravaggio e le Costiere Amalfitane che vuoi. Il turismo, suo alfiere, raro oro italiano (dato in crescita secondo il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo), incontra problemi di diverso carattere. Alcune città scoppiano e non riescono a sostenere il peso della mole di turisti, altre, magari vicinissime alle principali mete, sono praticamente ignorate. Non riuscendo così a garantire una perfetta capillarizzazione culturale ed economica. Insieme a vari fattori su cui ragionare. “Siamo ancora al mordi e fuggi in città d’arte affollate, dove i benefici sono compensati da disagi. E abbiamo ancora regioni che vanno in ordine sparso. Da qui nascono le proteste e le richieste di numeri chiusi”, scrive Fabrizio Patti su Linkiesta in un interessante riflessione.
Così oltre al turismo comandato, forse la più alta forma di made in Italy, capace di proteggere il profitto e di estendere una visuale migliore, colta e più dignitosa di questa terra, funziona ove comandato (tipo quei Musei Vaticani che impongono spesso il Lazio primo nelle classifiche “turistiche”, di visite ai musei) ma nella maggior parte dei casi, va a cozzare con la mentalità provinciale, che è iperprotettiva e inadatta a cogliere i benefici di un’apertura al mondo, controllata e fruttuosa, culturalmente ed economicamente, che gli impedisce di essere la primissima e certa risorsa di questo Paese. Mentalità provinciale che, in Italia, fa sprecare carta, denari, tempi e talenti. Un’incrostazione dell’Italia moralista vintage che chiude ermeticamente nelle mura. Magari a pochi passi dal turismo di massa internazionale. E, quindi, dai grandi soldi.
Amici economisti, oltre al pastificio di Marino e Giovanna, e al tabaccaio di Giulione, ci rimane qualcos’altro di italiano? Magari di leggermente competitivo?
Non si fa in tempo ad avere mezza virtú, che già l’Italia non esiste più…