Peccato. La Serbia strappa il mondiale a una temeraria nazionale di Pallavolo. Alcuni, invece, hanno strappato, come sempre, la rabbia nazional-popolare. Quella specie di piccola malizia di taluni che subito hanno festeggiato l’Italia giunta in finale postando, come Roberto Saviano o Alessia Morani, la foto della nostra atleta nera, Paola Egonu, come a voler escludere il resto. Un resto scomodo, per loro, esistente. Come quando Saviano non mancò di benedire il suo breve mondo ideale, creduto villaggio globale, e in occasione dell’oro italiano nella 4×400 dello scorso luglio pubblicò un post con le nostre atlete nere vittoriose scrivendo: “l’Italia multiculturale nata dal sogno repubblicano non verrà fermata”. E non è una cosa di poco conto, non un “ghiribizzo”, come lo definirebbe un cronista di Leonardo, Matteo Bandello, trattando di una masturbazione mentale sciatta e indefinibile, ma una cronica volontà di esaltazione del multiculturalismo spinto, sostitutivo, definitivo. Infilato a forza ovunque, come una manifesta superiorità “della razza” da chi ci fa la morale quotidiana sul razzismo mentre ascende il nonsenso come la notte.

Ebbene, non può dar noia una ragazza nera che serve la mia Patria.

Trovo, invece, vomitevole e razzista, non nel senso dell’esaltazione di un’etnia, ma nella degradazione forzata dell’altra, chi ideologizza ogni cosa si muova, che respiri o meno, che sia un gesto, un individuo, finanche un’intenzione, e che pretende che la mia Patria, sentendosi sempre, inspiegabilmente colpevole di qualcosa, serva una ragazza nera, ma per propria opportunità di visibilità commerciale o elettorale, o, magari, per zittire le sirene ululanti della propria, prossima estinzione.
Bramando nella frantumazione l’esatto opposto di ciò che tiene unita una gente, ovvero il cemento con cui sanare le crepe di un popolo in difficoltà, che difficilmente sa riconoscersi, e molto più facilmente riesce a osteggiarsi, nonostante necessiti di integrarsi con sé, ancora, prima di sognare la meta esotica della fusione con civiltà lontane. Di un popolo colto dall’Alzheimer, che non ricorda di avere la stessa missione, la stessa genesi, la stessa storia, capace solo di percepire la piacevole sensazione di ciò che fu, come un gradevole godere strappato, distorto, lontano, non più vivente. Esistito vivere, non più esistente.

Cento anni dopo la vittoria della Grande Guerra,  dopo il momento fondativo della Patria, la continuità necessaria, la lezione da tenere a mente, la preghiera della maturità, la necessaria eredità per essere non una postilla pensierosa nel cuore d’Europa, ma una nazione nel contesto di una colla di trattati è che l’Italia è una.
L’Italia è anche una ragazza nera, purché sia nel tricolore, purché sia il tricolore.
L’Italia non è, invece, chi la vuole distruggere. Non è di chi contribuisce a distorcerne l’immagine per la propria convenienza.

Non è dei nemici della Patria. Accortisi del fatto che l’Italia è una nazione su chiamata. Quando lo sport azzurro chiama, specie la Nazionale di calcio, esso si unisce, copula nei sentimenti, si attorciglia nel tricolore. Tanto valeva, per loro, infestare anche quell’ultimo misero baluardo di coesione nazionale esistente, lo sport, perché sia un’iniezione psicologica continua, la loro.

Una volta per tutte, perché sia un monito definitivo che interrompa l’eterno loop provocazione-risposta, infrangendo la narrazione, per tornare alla realtà. Un giro deleterio che non va ignorato, ma che non ci merita mentre abbiamo urgenza di capire la direzione del nostro tempo.