Dispaccio di una disgrazia.

1918, le Forze Armate.
2018, le Forse Armate
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Lo Stato, con atto ufficiale, istituisce Le Forse Armate, a seguito del rifiuto del video istituzionale commemorativo del 4 novembre, giudicato troppo “combat”, aggressivo e militaresco, in cui, per altro, non v’è neanche un istante dedicato al fante crepato nella Battaglia di Vittorio Veneto, alle quattro di mattina, con la foto di Ines, eterna sposa, nel taschino vicino al cuore, per terminare il Risorgimento e generare il momento fondativo di questa Patria di pupazzi ingrati.

Se avessimo avuto contezza di tale ingratitudine, cento anni fa, avremmo detto ai ragazzi del ’99, così piccoli, di tornare a casa dalle mamme o dalle giovani mogli in Calabria, a fare l’amore al buio di una candela, di lasciar perdere o al limite, di farla con i propri connazionali deliranti, la guerra, non con i dirimpettai.

Le Forse Armate che combattono per un Paese che ha paura di se stesso, ma che all’occorrenza spedisce i suoi soldati in giro per il mondo, col caricatore denso di pallottole, senza dar sempre notizia di tutti gli scontri a fuoco o delle operazione proprie di un teatro di guerra che i nostri militari compiono. Perché “deve essere” una guerra di contenimento, di pace, di fiori e carezze all’inguine, appena sfiorato, di sigarette al campo mentre si applaude al nuovo progetto umanitario, quella che i “nostri”, quando partono da Ciampino verso l’Afghanistan, vanno a fare.

La scaltrezza degli sciocchi. Sciocchini, piccolì, piccolini. Uhhhh, le lellè. Tenerissima, come la pia madre che avvolge il cervello, la classe dirigente della politica italiana. Asettica, rovinata sopra la linea storica per sbaglio, scivolando sulla negazione, surgelata in attesa di essere servita come un’orata al pranzo della domenica da zia Carmela, quando, giusto, giusto, viene scongelata dall’orgia ribollente di italiani incazzati per qualche cosa da twittare, da postare, su cui fare un video, e quindi su cui prendere posizione. Una dirigenza politica che riesce a porsi persino il problema del fatto che un militare abbia le armi. E che le usi. Oltre alla profonda umanità di una carezza e un di Tronky dato, di corsa, a un ragazzino afghano, come farsi amico un gatto spaventato. Di corsa, per non mettere a repentaglio, come bersaglio fisso e facile, se stesso e la propria squadra.

Padri che non servono più, madri che fanno i padri, poliziotti che non manganellano, né devono poliziottare, scuole che insegnano il culto e il gusto di un’altra dimensione sessuale edulcorata dalla perversione ideologica moderna; preti che non pretano, donne che non devono donnare, nella più profonda femminilità, non più contenimento della vita, incinta solo di indignazione, ma combattere contro l’uomo bianco occidentale, responsabile di qualsiasi cosa le accada. Figli da comprare, da affittare, da farsi prestare, fascisti anche i compagni che sbagliano. Nel gioco delle coppie di questo tempo, mancavano i gelatai che lavorano il ferro, i postini che fanno polizze assicurative, e i militari che non fanno i militari, ma la forza di protezione civile, con una mimetica disegnata addosso solo per abitudine, o per mescolarsi dalla propria immagine. Per rifuggirne.

Perché la vedi praticare ovunque l’idolatria dell’immagine, un’immagine fatta e non dedicata, aderente alla narrazione della realtà a seconda dei comodi ideologici di chi impone i ritmi del Paese. Nella vita conoscerai la riproduzione della Gioconda, e tanto ti basta, e forse mai ne vedrai l’originale. Da oggi i militari saranno muratori, pur rimanendo tali. Ma tali cosa? La crisi totale che vogliono imporre è alla base di ogni stravolgimento culturale, nel senso che invade il momento della coltivazione di ognuno generando una continua negazione fatta di mortificazione e controsenso. L’indebolimento deve essere graduale: prima occorre decontestualizzare le certezze comuni che influenzano il determinarsi del pensiero critico, l’agire e l’intimità, quelle sponde essenziali che ci rendono l’esistenza ancorata a riferimenti certi e pienamente condivisi; quindi “culturalizzare” dissacrando ciò che permette di dedicarsi la vita, ovvero resettare, poi far perdere certezza persino in ciò che gli occhi vedono e l’intelletto valuta come reale. Solo dopo, ultimo step, dopo l’eviscerazione e la pulitura della coscienza, si può nutrire con l’immagine, specie quella da offrire verso l’esterno, come se si fosse in un eterno senso di colpa. Abbraccio, stretto, precauzionale.

E cosa facciamo? Ci permettiamo, cento anni dopo aver vinto la Grande Guerra, di ricordare che il militare è colui che spara per l’Italia perché continui a essere tale, per difendere un confine, finanche per attuare la volontà estrema, Si vis pacem parabellum? Ogni figura è tessuto connettivo del Paese, non vanno mischiate a cazzo. E il militare è fatto così, ha la divisa mimetica, gli occhi da ragazzone duro, o il volto della temibile dea, ha un’arma in braccio, un coltello sulla coscia, qualche nastrino che è medaglia, un’effige su un basco colorato, forse qualche bomba a mano, ma, secondo il criterio moderno, di tutto questo non se ne fa nulla. Non se ne fa nulla, finché non arriva qualche pazzo a gridare Allau Akbar sotto al Colosseo, o fintanto che c’è da leccare il culo a mamma Usa, inviando qua e là qualche ragazzo del 1º Reggimento San Marco.

1918 – 2018. Un Paese ingrato, impotente, storpio, che ha paura della vittoria. Che ha paura di se stesso. Della stessa rancida sostanza di quel muschio che infesta gli scalini del monumento agli eroi, lasciato marcire per ingratitudine. Che se non fosse stato per l’iniziativa di Casa Pound, nel 2015, di restituire dignità alla sacralità e alla bellezza, ripulendo in tutta Italia i monumenti ai caduti, oggi molti di essi sarebbero coperti dai capelli della terra che tutto si mangia. Un Paese che non merita di essere erede di quelle migliaia di italiani crepati dalle pallottole o dalla fame, dal gas e dai batteri, nella Grande Guerra esattamente cento anni fa. E che per un pelo, se non fosse stato per la mozione alla Camera di Fratelli d’Italia che ha impegnato lo Stato a celebrare in tutto il Paese, degnamente, il centenario della vittoria della Prima guerra mondiale, sarebbero stati ammazzati due volte, una al fronte, l’altra dal silenzio. Allora, quando il ricordo diventa un contentino, anziché una missione, di Stato, sta a noi essere celebrazione, nella purezza di un’anima nascosta nel proprio angulus di oraziana memoria, in cui nascondersi dalla ronda dei tiranni, e osservare il mondo riprendendo lucidità. In quell’angolo di noi dovrà esserci, in questi giorni, la celebrazione.

Così come leonardianamente la “pittura è cosa mentale”, anche la celebrazione necessita del raccoglimento dello spirito, prim’ancora del momento comunitario, altrimenti si riduce a vuoto esercizio di stile. E dunque celebrare è prosecuzione spirituale. Non serve partecipare a commemorazioni accontentate, dobbiamo essere noi stessi la commemorazione. Dedicandoci la vita, essendo la prosecuzione, come i soldati in trincea. E per quei fanti, leggere. E capire cosa è stato cento anni fa e perché lì nasce la questa Patria.

Se volete celebrare il sacrificio di un popolo che si è sforzato di diventare nazione incrociando la spada con la morte, ignorate lo Stato, i suoi video istituzionali, la sua fragilità, i suoi manifesti sul lungo Tevere, le “sue” Forse Armate. I monumenti infestati dal muschio. Come sempre la virtù striscia fuori dall’esercizio di stile commerciale. E torniamo a tributare le Forze Armate. Ventidue storie, nome per nome, regione per eroilibrodialetto, per celebrare i cento anni dalla vittoria della Grande Guerra. Racconti, come lettere dal cuore del fronte, non il solito esperimentino accademico lontano dal cuore di tutti. La trincea fu famiglia. Ventidue amici, ventidue sensibilità e una certezza: il 4 novembre 1918 nostra madre Italia è diventata grande.
In “Eroi”, in uscita oggi in libreria per Idrovolante edizioni, storie di vita, di amori, di pallottole e sangue, di medaglie d’oro. Storie di guerra e di vittoria. Un libro essenziale, narrazione di un percorso che parte dal territorio minuto, dal dialetto e dall’identità locale e termina con una Patria nuova e uguale per tutti. Tra le pagine una narrativa carezzata dalla sensibilità degli autori che riportano quegli atti di coraggio di ventidue soldati italiani, che ben fanno capire quale sia l’esempio da seguire cento anni dopo.
Non un’opinione, ma la storia. Dallo Stato, a noi stessi. Dai pupazzi, agli eroi.

(Emanuele Ricucci sentitamente ringrazia per la settimana di ferie che avete dedicato alla lettura di questo articolo).

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