Lettera a una destra mai nata (ma solo annunciata e lontana dalla barricata)
“La pazienza è finita”. Che significa Giorgia? Tempo fa la Meloni ebbe a scrivere quanto appena enunciato in un post giusto e battagliero. Cosa significa Giorgia che la pazienza è finita? In che senso?
Mentre piovono post di indignazione sui social network dai leader della destra, qualche mattina fa proprio Meloni e Salvini hanno condannato la prima manifestazione napoletana. Aspettativa chiaramente colmata in via istituzionale. Crosetto, dall’altro lato, se l’è presa brutalmente con le infiltrazioni della defunta Forza Nuova nell’escalation di rabbia di ieri sera, colpevole di aver provocato una violenza che lo Stato deve reprimere. Insomma, tutta la destra contro la stanchezza popolare sfociata nella prima piazza di Napoli. Ma cosa vuole allora questa destra? Vuole solo astenersi in aula quando si vota? Vuole solo farsi i selfie coi Nutella biscuits? Come vuole raggiungere il bene comune in questo momento? Cosa intende fare per scassinare il fortino governativo ed essere alternativa allo Stato del terrore e dell’emergenza infinita? Insomma, se noi siamo dei fottuti trogloditi nel manifestare rabbia popolare, magari anche in piazza, noi impotenti, eterni precari, fragili, svuotati e sottovalutati, condannati ai domiciliari, costretti a ritenere la vita un’eccezione, un atto innecessario, sacrificabile, impossibilitati a farci ascoltare dal governo degli aborti umani – classe di mai nati come uomini, figuriamoci come politici -, spetterebbe a loro garantire i nostri diritti, o sbaglio? Spetterebbe a loro occupare l’aula di Montecitorio per impedire alla nuova junta venezuelana di imporsi ancor più – a proposito Capezzone fornisce un’idea precisa di quanto avviene in tal senso: “Si procede a passi lunghi e ben distesi verso una junta alla sudamericana, naturalmente presentata in modo soft-normalizzante-empatico-benevolo, tra gli applausi di “sinistra” e “intellettuali”. Parola vietata? Libertà. Chi paga il conto? Il settore privato” -.
Insomma, proprio nei giorni della grande rabbia se l’Italia è “violenta” non va bene, se l’Italia rallenta non va bene, se è banalmente arrabbiata non va bene, se tenta di innescare una reazione che spinge l’opposizione ad agire concretamente non va bene. Ma cosa deve fare l’Italia, cara opposizione, e soprattutto, cosa deve fare l’opposizione, cara Italia? Gentile destra, come si può ancora chiamare Stato un guazzabuglio di pericolosi incompetenti, di analfabeti del lavoro e della cultura che hanno normalizzato il lussuoso atto politico, un tempo riservato a minoranza qualificate, come lo chiamerebbe Ortega y Gasset, al loro infimo livello, che hanno trasformato l’opinione pubblica in emozione pubblica, che hanno elevato le chiacchiere da bar a rango di legge, i capricci in diritto di prendersi ogni potere? La mandria dell’atto amministrativo a scopo di sopravvivenza, replicante, arroccata dietro agli occhi piccoli e furbi di un faraone che sputa editti. Cara Giorgia, cosa significa “la pazienza è finita”? Caro Matteo, oltre i social c’è di più? Lo scrivo chiaramente nel mio ultimo libro (Contro la folla. Il tempo degli uomini sovrani): se la destra vuole contaminare il tempo in cui vive, fornire un’alternativa all’imposto e non limitarsi a completare il compitino istituzionale per colmare un’ inferiorità spesso troppo evidente, viepiù sul territorio, facendosi relegare nel campo dell’inutile (che si declina dai social, alle sue richieste parlamentari) non può utilizzare le stesse armi di chi vuole estinguerla, non può compiacerlo, non può servirsi degli stessi uomini folla, replicanti di cui si serve il governo degli aborti umani. L’avversario non ci inviterà mai a cena, né ci concederà spazi, fedele alla sua missione totalizzante. Sicuramente mi sbaglio ma un paio di domande, magari, è lecito farsele. La pazienza è finita, andate in pace.
Agisci, per Dio, agisci, destra. Ti chiamo “destra” per sbrigare le pratiche semantiche, ti chiamo così per i ricordi di una vita, nostalgia del presente, di quando mi hai cresciuto, ora che ogni significato si scioglie in un’estrema relativizzazione. Non immaginare di cercare, ora, il consenso. Non ora, non qui. Non con la più bassa speculazione che riserviamo, volentieri, ad altri. Non immaginare di farlo, magari, utilizzando in maniera politicamente corretta le regioni che governi. Usale come grimaldello, usale per barricare la residua dignità degli italiani. La sinistra lo avrebbe fatto. Usale per sovvertire il drammatico jingle di questo tempo di sconsiderata irrazionalità: discolparsi da tutto per l’impossibilità di assumersi le proprie responsabilità.
“Noi fummo da secoli calpesti, derisi”. Che senso hanno le parole del nostro inno, ora? Quell’inno che tu, destra, hai contribuito a difendere e diffondere in tempo in cui il terreno di coltura batterica ideale per la vita in società prevede un mondo distopico, globale, ipertrofizzato, senza Dio, né confine, senza patria, né memoria storica che ne definisce i contorni dell’identità. Compone i tratti del volto dei nostri padri e dei nostri fratelli maggiori. Che senso hanno quelle parole se, ieri come oggi, torniamo ad essere calpesti e derisi? Dove sei, destra? Mostra i denti, impara a concepire il sacrificio estremo, impara a superare i tuoi antichissimi vizi innati, quel feudalesimo di piccoli eserciti contrapposti e autonarranti, quel nepotismo e quei cerchi magici che troppo spesso inquinano le tue leve promettenti, le tue giornate di grandi ideali, di uomini e di tempi avversi a cui mostrare la fronte e tirare le stampelle. Giornate passate troppo spesso a tinteggiare la torre d’avorio che hai preso in affitto, scegliendo i mobili per arredare il ghetto. Quei vizi che impediscono di essere una rete, che impediscono a questo nostro pensare di contaminare il tempo.
No, destra, non è colpa tua se ci troviamo nel più buio tramonto italiano. Ma adesso è il momento non del consenso ma della lucida azione concreta.
Cara destra, anche io sono un tuo figlio, disperso, orfano. Lettera a una destra mai nata, ma solo annunciata dai sondaggi. Che si alimenta della certezza del neoreale, di quella sondocrazia che offre un’esatta percezione del reale, quasi fosse vero, quasi si possa toccare. Ma che reale non è. Così come quel nozionismo che affligge il nostro tempo che non forma un pensiero critico, santo e benedetto, aggregato sulla conoscenza, ma costruisce una percezione di conoscenza che nella fretta ossessiva del nostro tempo, nella bulimia di informazione, permette di unire fugacemente bocconi di dichiarazioni, pescate un po’ dai talk show, un po’ dai social, un po’ dai leader, un altro po’ dai giornali. Punti che non si collegano.
Il tuo uomo deve essere altro, destra, deve tornare a coltivare sé stesso, a generare un pensiero critico, a dedicarsi la vita e il tempo, a riconnettersi con la profondità delle proprie dimensioni. Lucido e integro deve arrivare alla metà di una psicotica e surreale porzione di storia.
Oggi è nel ribelle l’uomo sano, ma soprattutto l’uomo sovrano di sé stesso. Questa guerra psico-sanitaria la vincerà solo chi si manterrà lucido e integro nelle proprie intenzioni di libertà, mentre tutela la propria salute e quella altrui.
Banalmente. Poiché è inutile compiere una sciatta dimostrazione di forza culturale per evocare questi pensieri.
Destati, destra. Traduci il tuo sentire, traduci il tuo pensare.