La pesantezza generale è diventata insopportabile. Siamo diventati insopportabili. Grassi e oliosi Jabba the Hutt frustrati, isterici, lagnanti, piangenti, sofferenti. Botoli ringhiosi incarcerati nel Trittico del Giardino delle delizie di Bosch, in cui il confine della dignità della parola, dell’agire rispetto alla costruzione di un pensiero, del saper stare al mondo, del ragionare sopra le cose, è spezzato da orge di opinioni e bocconi di nozioni pescate qua e là, dal talk show, al verbo santo del leader di partito, fino al social, e cucite poi in fretta, senza approfondimento per nutrire un critico pensare, utili a manifestarsi nel neo reale, quello in cui si crepa come segnaposto virtuali.

It Alert – un semplice e utilissimo sms di Stato – spaventa e scoccia, la pubblicità di un supermercato divide e fa azzannare, un semplice fatto di cronaca trasformato in un dramma collettivo, un soldato che pubblica un libro – per quanto polarizzante e fortemente divisivo – diventa un santo per cui dimenticare ogni ideale finora esistito, per bagnarsi le mutandine come le teen davanti ai Beatles nel 1964 in bianco e nero.
L’unico stato effettivamente esistente in questo stivale alla deriva nel Mediterraneo è lo stato di agitazione emotiva permanente. Ma l’emozione per sua natura si sa, è effimera, evanescente e ad alto contenuto esplosivo.
Ma ogni belle deflagrazione, si sa, lascia intorno a sé solo macerie. Quando la marea si ritira non rimane nulla. E la società non si è coltivata, ha interrotto la maturazione, che è il primo passo per una comunità realmente vivibile.

RISSE, EMOZIONI E CANI DI PAVLOV

Pare assurdo, ma ogni giorno italiano – per un verso o per un altro, per un tema o per un altro, per una semplice piuma che vola, o per un’altra – ci proietta alla biblica paraculata umanissima di Ponzio
Pilato che si rivolge al popolo, chiedendogli il parere su chi crocifiggere, se Gesù o Barabba.
Immagine della piazza. Seguono strilli, molta bava gocciola al suolo. Urla, baruffe, zuffe. Tutto è costantemente diviso. Pareri che significano sentenze.
Ancestrali risse farisee che ritornano alla mente dell’oggi, che di risse farisee, di tribalismo spicciolo, è colmo. Tribù contro tribù, in un’aggregazione fugace
addosso al lavandino incrostato dei cessi della discoteca, che dura il tempo di una contrapposizione contro un mostro imposto. Un popolo clitorideo, quello
italiano, che gode ad ogni stimolazione indotta dalla politica, ancor meglio dalla comunicazione politica, che emana il barbarico urlo di raccolta alla battaglia sul tema del giorno, e autoindotta, per autoesaltazione, autoconvincimento, che in un attimo di nebbia ci fa sentire soldati chiamati da Dio a liberare la Terra Santa e qualche edizione giornalistica dopo, finiti i bagordi e spremuto il tema, dei poveri orfani che rimpiangono sempre un tempo migliore.
Iperstimolazione. Cani di Pavlov,
sbavanti o assenti, a seconda dello scampanellio del padrone.
Occorre uscire urgentemente dalla schiavitù della cronaca che annulla ogni dignità, ogni linea temporale e le maturazioni che portano con esse.
Le emozioni, i giudizi sentimentali, regnano sulla razionalità, sul buon senso e sul giudizio critico, costruito su una coltivazione fatta di studi, letture, riflessioni, intuizioni, dubbi fugati da certezze, errori e lungimiranza. Tutto cucito a fabbricare il vestito di un uomo integro agli occhi della storia.
E l’unica sovrana, in questa storia presente, è la pancia sul cervello, l’isteria sulla ragione. Così la parte popolare della democrazia – quella marmorea agorà, oggi relegata, quasi del tutto, allo spazio virtuale e mediatico – vede mutare la propria funzione. Da palestra civile,
a soap opera dalle tinte fosche o amorose. Bipolarismo. Bipolarità. Popolarità.
Il sistema Italia è aggrappato con due dita, che sorreggono tutto il suo peso, al bordo di un pozzo pieno di merda e di fragilità, di dilettantismi e isterie.
Tifo indiavolato di quegli uomini.
Cosa sta succedendo? Perché sembra sempre più evidente un’involuzione qualitativa della democrazia, della politica, del popolo italiano? Perché il dibattito è ridotto a una frettolosa e immatura conversazione da bar? A un’evacuazione di pensieri istintivi che
non richiede competenze specifiche, con la quale si pretende di produrre significativi mutamenti sociali, legislazione, di influenzare il dibattito con una scoreggia fino a ritrovarsi in televisione? Perché ogni giorno è una rissa? Perché abbiamo perso la testa?
Perché la pancia sovrasta il cervello? Perché il cervello è nella pancia, come Krang? Perché non riusciamo più a fermare quest’infantile onda di ridicolo?
Perché l’emozione domina la ragione. E non c’è bisogno di intavolare un dibattito di filosofia morale, né aprire il portafoglio degli esempi. È il presente quotidiano che nutre questa constatazione, in ogni sua evidente debolezza. Che ci sia da spostare un intero popolo pendente dalla bocca dello scienziato, del politico pater patriae, che ci sia da sbudellare un untore,
o che si debba transitare dal “mondo senza confini” a “sparate al mio vicino”, è questione di poco.

UOMINI ASCIUTTI COME LA MORTE

Il popolo di rivoltosi – e mai rivoluzionari – si ferma alla contrapposizione e non esiste nell’affermazione: Orazi e Curiazi, guelfi e ghibellini. Rarissimi si ergono sopra lo screzio, la psicosi, il destra-sinistra. Come sempre, in ogni cosa in questo orribile incubo di un barbone schizofrenico che noi chiamiamo reale. In realtà l’occasione è propizia anche stavolta per riflettere sull’estrema urgenza di generare una nuova classe di uomini, rossi o neri, fossero anche gialloverdi o a forma di trapezio. Una nuova classe di uomini disintossicata dall’opinione autoritaria e diretta verso l’idea autorevole, ripulita dai media e dai social, capace di rimanere adulta e di assumersi la propria porzione di responsabilità agli occhi della storia. E anche verso se stessi o verso i propri figli, come ci ricorda lo spot della disperazione generale. Acchiappare per i capelli questo diavoletto obeso capriccioso, rachitico nell’animo, che sono gli italiani, fermarli con due schiaffoni, sottrarli dallo stato di agitazione emotiva permanente e dalla dipendenza voyeuristica e disinteressata della vita, in cui si entra, si commenta e si sparisce, senza mai aver approfondito, senza aver nutrito un pensiero critico, senza aver svolto nessuna coltivazione di se stessi.
Mentre ci si azzanna e, in maniera spesso infantile, molti prendono le parti di una o dell’altro lato della pesca, incontrando adulti che paiono bimbi travestiti da Masaniello, ci si dimentica che l’evoluzione perfetta del costrutto ideologico del progresso, nelle sue orribili accezioni, è quella antropologica. Qualcosa di duraturo, profondo, radicale, perenne, fin nei tessuti connettivi. Costruire un uomo mondato accuratamente dalle dimensioni di profondità, dalle identità sino al credo religioso, passando per la messa in discussione continua dell’uomo col proprio rapporto con lo spirito, con la Fede, con i valori e l’educazione ricevuta. Un uomo veloce, sterilizzato, che si faccia impilare bene, velocemente, uno sopra all’altro, sempre conforme e in continuo e confuso dibattito, costantemente migrante, precario, sismico, senza Dio, né Patria, senza confine. Se a molti spaventa il presente, a me terrorizza il futuro. Che sicuro non sa di pesca.
E no, non può essere lo spot di un supermercato – per quanto innocuo e potente, a suo modo – che lascia null’altro che diarrea linguistica la base del dibattito generale sulla separazione, specie in tempi in cui la famiglia, come ultimo nucleo sacro rimasto, è sottoposta a un accanimento materialista senza precedenti.
Se la Chiesa è viva batta un colpo. E non sulla bara di Napolitano.

CONTRO L’EPOCA DELL’INFANTILISMO

Infine, con grande piacere intendo citare Simone Regazzoni pensatore da sempre vicino al sentimento di una sinistra ancora viva e ragionante e autore, per altro, di uno splendido lavoro – ora in libreria – sul rapporto di un padre e di una figlia sulla base della vitalità del pensiero e dello sport:
A sinistra se ti raccontano di case con 20 letti, figli spirituali, matrimoni collettivi e via dicendo, l’intellettuale di turno annuisce pensoso come a dire “ovvio, ovvio, sottoscrivo, non penserai che io voglia sposarmi e avere un* figli* andando a letto con qualcun* in una casa con un solo letto, magari ‘matrimoniale'”!!!! Oh mio Dio, no!!!!”.
Ma se uno spot osa anche solo evocare anche solo far intravvedere lo spettro della famiglia tradizionale, allora l’intellettuale di sinistra dà letteralmente di matto, fa scoppiare il finimondo perché le pesche sono fasciste. Ma stiamo scherzando? Dobbiamo continuare a far finta di niente? Dobbiamo dare assenso intellettuale a cose di questo tipo?
Lo so, sono anni che per quieto vivere a sinistra accettiamo questo delirio. Però forse è ora di dire che ci siamo rotti il **** (oh mio Dio!), e che sono proprio questi delirii che hanno reso possibile il successo, per ora solo editoriale, di discorsi come quello del Generale Vannacci. Se continuiamo così il Generale ce lo troviamo Presidente del consiglio

Contro l’epoca del capriccio, dell’infantilismo e della pesantezza. Un’epoca che prima di tutto ha dimenticato la dolcezza, la semplice tenerezza, quella che il celebre spot di Esselunga, di cui tutto il Paese parla come fosse una breve pontificia, esprime senza connotazione ideologica.
Contro la pesantezza generale reclamo il diritto alla bontà, alla dolcezza, alla tenerezza, ai naturali movimenti dell’anima, e mi schiero per primo a petto in fuori contro la durezza ideologica, contro la schizofrenia di un uomo rigido che ovunque si sente minacciato. Reclamo il diritto alla leggerezza.
Ma torno, per l’ennesima volta, a reclamare anche il ruolo dell’intellettuale in società, che è quello di andare in esplorazione verso i meccanismi fondanti del nostro tempo e non di fermarsi alla rissa quotidiana che si svolge sulla superficie delle cose, a costo di soffrire e di essere impopolare.

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