Si vergogni chi sta facendo ideologia sul cadavere ancora caldo di Giulia. L’emozione ha sostituito la ragione e la nostra è una società malata
Rieducazione, cultura, condanna, patriarcato, maschilismo. Una ragazza è morta, è ancora calda e qualcuno, anziché implorare – perché in questo Paese è necessario farlo – chi dovrà far rispettare la legge, affinché la condanna dell’ex fidanzato di Giulia sia talmente ferrea da essere d’acciaio – considerata l’eccitante certezza della legge del carcere… – moralizza l’esistente, sputando sentenze su tutta la generazione maschile vivente. Ovviamente bianca, eterosessuale e figlia di una “classica” famiglia italiana, come residuo borghese altamente tossico per la nuova immagine di famiglia degenerata, pardon: senza genere alcuno.
Tossicità è la parola del giorno, la stessa che gonfia le vene del nostro presente, in ogni sua manifestazione. Tossicità nel rapporto della povera Giulia col Turetta; tossicità dei vaneggiatori, dei rieducatori, dei riprogrammatori, sentinelle ideologiche che per rieducazione dei figli non intendono, ad esempio, il delicato ma concreto sostegno – sotto varie forme – ai genitori nel loro ruolo, in maniera imparziale e matura, di costruttori di una formazione per i figli, tale da insegnarli, anzitutto, a saper stare al mondo (fatto composito che vale più di mille lauree prese per accontentare i nonni, in un bilanciamento perfetto di azione e stasi, diplomazia e forza, serietà e giocondità, assenza e presenza e altre importanti biforcazioni in equilibrio), ma si riferiscono, nei loro unti sogni bagnati, a una sorta di occulta regia morale istituzionale che magari, con l’ausilio di qualche osservatorio dal sapore di Politburo, moralizzi sotto forma di caldo consiglio, genitori e figli, pena l’esclusione sociale, la degradazione a fascista violento da estinguere o condanne di carattere formale. Come faccio a sapere questo? Perché il sistema culturale e politico che oggi grida all’impiccagione in pubblica piazza di ogni uomo esistente in questo momento in Italia, è lo stesso che ha decretato la condanna a morte dell’istituzione familiare per come l’abbiamo sempre conosciuta, minando alle fondamenta il ruolo dell’uomo e della donna, della coppia, a freddo raggruppamento sociale e del genitore, ridotto a figura di servizio, ad accompagnatore, privando la prima società dell’amore, quale la famiglia è, di ogni elemento utile a fornire un esempio che nasce da un significato e non da una funzione.
Il saper essere padre è un concetto antico come l’uomo, che attraversa il rito e la religione, il pater familias e l’immagine di Dio, il soldato e l’uomo che sa edificare la pace, che da Enea, corre ad Odisseo, fino a Cristo. Sciattamente il genitore 1, oltre a ingravidare la donna depositando il suo sperma senza farla sentire offesa da un gesto simile, è compresso in ogni sua estensione simbolica, carcerato nelle mura di un insopportabile moralismo, castrato, rigonfio di pesi che non tollera più. Lo stesso valga per la donna: dalla maternità della madre che contiene la vita e l’accompagna verso la gentilezza e il perdono, verso la forza interiore e la purezza dell’amore, a figura che, se possibile, deve continuare ad emanciparsi all’infinito, fino ad esplodere in quella libertà totale da ogni funzione, senso e significato. Il sorriso appena accennato della Madonna Benois leonardiana, che tiene la mano del Bambino, con cui gioca, a ricordare la gioia dell’eternità di una madre, che supera ogni dolore, ogni oppressione e diventa prima rappresentazione della libertà.
Libertà che non è una costante emanazione di concessioni, ma partecipazione a se stessi, al tempo e al reale.
Solo così si può realizzare, nell’individualità, un pensiero critico e dare una forma reale all’autodeterminazione.
La famiglia, come istituzione, condannata a morte dagli albori dello stesso sistema moralizzante di oggi, figlio di una determinata visione del mondo, da quegli anni Sessanta dell’emancipazione totale che ha delegittimato i modelli di autorità e che cresce i ragazzi di oggi, fuori dalle mura familiari, nell’incomunicabilità. Manipolatori, narcisisti patologici, potenziali individui pericolosi, atti a uccidere dentro e fuori, esistono dall’alba dei tempi e, purtroppo, posso generare drammi in ogni momento, verso chiunque. Se davvero si deve parlare di educazione, a questo punto lo si faccia per insegnare ai minori come riconoscere le stranezze potenzialmente nocive di determinate figure e a comunicarle a chi di dovere, in primis ai propri genitori. Se davvero si deve parlare di educazione, lo si faccia insegnando alla generazione di questo presente il significato e la ricerca della consapevolezza del dolore, della morte, del distacco, della tristezza, della delusione, la ricostruzione del tessuto interiore conseguente alla disillusione; si vada a puntellare, con il cemento del confronto e dell’apertura mentale, oltre ogni tabù, le fragilità interiori, là dove si annida anche il talento. Si abitui questa generazione a decriptare la complessità, affinché non sia schiacciante ed essa non si ritrovi rinchiusa nell’isolamento, nella solitudine, nell’alienazione, fino all’autoannullamento.
Tossicità. Tossicità che castra ogni libera determinazione dei rapporti.
L’epoca del nuovo infantilismo comincia così, con la sostituzione della ragione con l’emozione per leggere e gestire i fatti del mondo, uno stato di agitazione emotiva permanente in cui l’opinione autoritaria soppianta l’idea autorevole. E nel leggere alcuni pareri, vi è davvero da spaventarsi. C’è chi è arrivato persino a scrivere che l’omicida, tale Francesco Turetta avrebbe agito semplicemente in quanto maschio e che, quindi, non si è trattato di un raptus ma di una condizione “genetica” secondo cui essere uomo non significa commettere necessariamente un femminicidio, ma che quasi tutti i portatori di pène pensano come un femminicida. Questo sarebbe un dato di fatto talmente assodato da essere cultura e società, secondo l’autore. Una sorta di possessione, prosegue la filastrocca, che nasce per avere credibilità verso gli occhi di altri uomini; gli stessi di cui donne, bambini, animali, Lego e Playmobil, benzinai, gelatai, astronauti, insomma, tutto l’esistente umano, subisce il controllo e la possessione.
Signori: che schifo. Quest’ossessione personale dovrebbe essere legge (morale) di tutti?
Occorre solo far capire che le profondità dell’essere umano, siano esse angeliche o infernali, sono spesso imperscrutabili, per quanto vi siano gli strumenti per riconoscere la follia. Troppo spesso la morte si realizza nell’errore dei vivi. In tutte quelle volte che Giulia si sentiva minacciata dal comportamento del Turetta, così come anche la sorella ha avuto modo di confermare.
La provincializzione dell’esperienza maschile – ovvero la riduzione dell’esistenza maschile a fattaccio figlio della peggiore mentalità della provincia italiana negli anni ‘60 – operata da alcuni deliranti pupazzi scriventi che, terminata l’onda mediatica con cui maturare visibilità e consenso nel grande regno della pubblica emotività, torneranno a scrivere di giardinaggio, di borse o di vacanze sulla neve, è un concepimento assurdo. L’idea secondo cui un uomo debba crescere necessariamente tosto e robusto – in chiara evocazione agli spettri di un fascismo mascolino mai sopito – pisciando sul territorio per marcarlo, incapace di ascoltare le proprie fragilità, di chiedere aiuto, di manifestarsi inferiore o inadatto rispetto a una determinata situazione, e quindi di proseguire nella personale rigidità che lo porta a involvere e quindi a uccidere, è drammaticamente pericolosa per la maturazione sociale. Chi soffia su questo fuoco ha una visione severamente distorta del reale, o, quantomeno, fusa con la personale isteria, connessa, magari, a qualche brutta vicenda trascorsa che ha generato un antico e infinito disturbo post traumatico da stress, che anziché curare è stato eletto a norma di giudizio comune, grazie alla galoppante cultura della debolezza che per libertà, anziché partecipazione al reale, al tempo e a se stessi, prevede una concessione dietro l’altra per pulirsi la coscienza senza fatica, né assunzione di responsabilità, per redimersi da se stessi nel mondo della religione dell’umanità, orribile distorsione dell’umanesimo del mondo globale, virtuale, liquido, senza Dio, né confine, perennemente precario e migrante.
Il privato inonda il pubblico.
Il fatto privato diventa pane per la maggioranza, invertendo il principio che fu di Orwell, che nel frattempo è stata azzerata nel suo ragionare criticamente. Così, anche la figura della sorella di Giulia esce dalla piccola provincia per muovere ideali e orizzonti comuni, non si sa quanto per via di un delirante dolore. La vetrinizzazione spietata in cui ogni dimensione umana finisce nella vetrina pubblica, la life politics, cosiddetta, ovvero la terribile sensazione di osservare tutto secondo un assassinante voyeurismo e su quello fondare la propria opinione. Un nozionismo che incolla pezzi di dichiarazioni dei leader, articoli della stampa, chiacchiere fugaci in amicizia, cuciti in fretta, senza il filtro di un ragionamento sopra le cose, di un approfondimento.
La democrazia liberale è malata, così come ha notato, tra gli altri, il politologo Luigi Di Gregorio, stimatissimo e caro amico, che su questo tema ha scritto pagine scientificamente memorabili e degne di attenzione trasversale (Demopatìa. Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico, Rubbettino). È malata poiché viene fagocitata dal dubbio, dalla sua stessa essenza; quel dubbio che nutre la santa libertà, quella libertà individuale alla base dei processi del governo delle nostre società. Il dubbio che una forma di libertà e tolleranza, di giustizia sia effettivamente di alta qualità tale da produrre ulteriore maturazione civile; lo stesso che, però, raggiunta una definizione di concessione individuale e sociale, prosegue nella sua opera, non si arresta, e cresce, cresce fino a ipertrofizzarsi, fino ad annientare ogni lucida razionalità, ogni valore profondo, ogni principio morale legato al Bene, nella direzione, invece, di una moralizzazione del Giusto. La stessa che fornisce, indistintamente, doveri etici e principi prêt-à-porter che possono essere impiegati in ogni parte del mondo, senza differenza, inquadrando un solo tipo di uomo universale. La stessa moralizzazione del Giusto – quel giusto “ideologico” che non inquadra il concetto di giustizia nel più nobile senso del termine e che non tiene conto di differenze demoetnoantropologiche ma che costituisce un dogma universale – venduta come unico accesso a una degna libertà, civile e matura, realmente emancipante e che prevede che, nella gestione della cultura di massa, che l’uomo sbagli a prescindere, sia pericoloso di nascita, sia un errore di programmazione della postmodernità. Un mostro o presunto tale. Il Giusto vuole la rieducazione di chiunque nasca con un pisello. Il Bene, che non appartiene a questo presente – se non nella trasmutazione materialistica, che dalla felicità conduce alla gratificazione istantanea, dalla libertà porta alla concessione continua – dei buoni profeti della riprogrammazione coatta, contrariamente, era già il pacchetto con cui formare un individuo degno dell’amore e del rispetto, dell’onore, certamente, senza essere un nazista duro e puro incapace di ascoltare le proprie fragilità.
Ecco la nuova pubblica decenza, come atto di sottomissione: quella di chi chiede scusa per essere maschio e quella di chi vuole formare, introducendo l’idea della scuola come supplemento all’educazione familiare, se non come sostituzione, che genera una nuova edificante brava persona. Una decenza rassicurante per chi la pratica, che crea riconoscimento tra i buoni, tra le fila della maggioranza, tra quelli che non costituiscono parte dell’emergenza democratica.
Da quando si è deciso di rendere sempre meno virile il maschio che l’irrazionale fragilità ha conquistato tutto, infestando le dimensioni più profonde dell’essere uomo, generando un eunuco senza volto che non sa rapportarsi verso l’esterno, ma, in principio, con se stesso.
Mi ribello con tutta la mia forza a questo vomitevole schifo. Questa è una società profondamente malata, in cui l’estremismo del progresso sciolto nell’azione politica e culturale opera nella mondatura delle dimensioni di profondità degli uomini per instillare un modo nuovo e duraturo di esserlo, intaccando, di fatto, quei meccanismi utili a filtrare la vita, il reale, alla luce della coscienza, dei principi e di un critico pensare.
Se questa è libertà, se la decenza conduce a un riconoscimento generale tra i buoni, non resta che essere indecenti.