Susanna lascia il Tamaro in bocca: ci sono testi davvero difficili e anche brutti, così anche la lettura e la comprensione di Verga dovrebbe abbandonare i programmi scolastici. Questo, parola più, parola meno, ha affermato Susanna Tamaro al Salone del libro nelle scorse ore. Attenzione: lungi da me amplificare una bega letteraria utile come due glutei senza ano; si tratta, al contrario, di ragionare sulla pericolosità concreta di uscite simili.

La formativa durezza del verista sostituita dalla soffice nuvola di scambi psicologici spuntati, come un fioretto di silicone, testi con la punta arrotondata. Atterriti di fronte alla solita fantacazzata che, grazie a Sant’Antonio, non lascerà nulla nel dibattito, proprio come le esternazioni delle Sardine – ve le ricordate? Per caso voi le avete viste spalare fango in Romagna? -, come fa intendere stamattina il salvifico Andrea Di Consoli sul Mattino, due riflessioni celeri, celeri, occorre farle, senza dubbio. Una su tutte: la disabitudine alla complessità sta distruggendo la nostra civiltà come un tarlo grasso e marcio.
La velocità dei processi di scambio umano, culturale e dell’informazione, l’interattività digitale che fornisce solo piccoli bocconi d’ogni cosa a scopo commerciale, finalizzando ogni volontà, l’abbassamento di ogni soglia di attenzione, l’epoca dei clickbait, dell’immagine-verità che sfama solo essendo, senz’altro chiedere, fugando ogni dubbio – elemento necessario per la costruzione di un critico ragionare sopra le cose – la disattivazione della curiosità per mancanza di volontà e di tempo per approfondire, che genera nozionismo – un pezzo pescato dalle dichiarazioni del leader su Rete 4, un altro pezzetto sui social, un altro dal sito web di un giornale, e si va a cucire in fretta pezzi di reale, giungendo a una credenza più che a un’opinione, alla percezione di conoscenza, anziché a una meditazione che ha scorporato quanto acquisito e che viene ricostruito in una certificata forma di pensiero individuale -.

Tutti elementi che uccidono la complessità, ma non quella a scopo dimostrativo, bensì la parte necessaria per eleversi ragionando. Dramma in tempo reale che, ad esempio, vive il giornalismo. Per necessità di vendita e di risparmio, campiamo costantemente in una bulimia di informazione, da ingoiare e rivomitare, spesso generata sul web, a opera di collaboratori non pagati, linguaggi fantasiosi, refusi, zero connessioni culturali e con rare tracce lettura del reale. Questo sistema ha cercato l’abbassamento verso il lettore per rendere digeribili, e quindi facilmente rivendibili, i contenuti, anziché il contrario, come è stato fino a pochi anni fa, quando la proposizione di un’offerta alta o medio-alta, dalla cronaca, alla politica, dall’economia, alle pagine culturali, che rendeva onore alla professione giornalistica anzitutto ed elevava il lettore alla comprensione, obbligandolo a una lettura attenta, all’approfondimento preventivo o successivo, innescando processi di maturazione della persona, era necessaria.
Questo abbassamento, secondo molti, dovrebbe verificarsi anche nel mondo della scuola: tutto troppo difficile per gli studenti, troppo tempo tra i banchi, troppo sacrificio, troppo tutto. Maledizione!

Questo fluttuare sulla pelle d’oca, danzare sui peli senza mai toccare la pelle, entrare nei tessuti connettivi d’ogni cosa, rappresenta un dramma di quest’epoca. E la generazione odierna rischia di vivere un processo di instupidimento accelerato, dovuto all’estrema premura soffocante di chi vuole prevenirle ogni choc, ogni incontro col mondo, ogni scontro con se stesso. Via dalla morte, non più partecipe della vita, via dalla responsabilità, potrà prendersela qualcun’altro, nella direzione solo dei diritti: il diritto di inorridire, di girarsi dall’altra parte, di non ascoltare l’altro – vi dice nulla la generazione snowflakes di cui Claire Fox ha scritto ottime pagine? – di estendere sempre e comunque il proprio pensiero, che seguendo il ragionamento precedente, diventa credenza appiccicata, frutto di una masturbazione frettolosa.

La cultura della debolezza (diritti, no complessità, rifugio continuo dalle responsabilità) non potrà impedire al burbero Mastro don Gesualdo di crepare con la sua roba in mano, cogliendo l’inutilità del possesso materiale nella perdizione spirituale, la morte taglia con la falcia finemente ed eterna solo chi, prima di incontrarla, ha santificato la sua vita: fa della tua vita come si fa di un’opera d’arte, disse “qualcuno”; la cultura della debolezza non impedirà ai popolani di Bronte di avere la testa mozzata per l’incapacità di gestire la libertà, visto che se ne ciarla tanto e a sproposito. Quella libertà che è partecipazione – direbbe Gaber – a se stesso e al tempo, che va saputa dosare e che non si cela dietro grandi piazze luminose facili da raggiungere, ma in vicoletti bui e pieni di insidie da conquistare.

Allora quella della Tamaro appare come diarrea linguistica da Salone del libro. Troppa certificazione di esistenza per quegli scrittori che hanno bisogno di sentirsi tali, ancora. Ma stupisce come la storica narratrice non abbia tenuto in considerazione questi aspetti metapedagogici, riferendosi, infatti, agli studenti, ormai ridotti a mandrie di bovini recintati dalle otto di mattina all’ora di pranzo in un luogo comunemente stabilito, anziché ad alfieri del futuro. È sconvolgente.

Togliere, togliere secondo questo mondo malsano: togliere la storia dell’arte, così da smarrire la via del ritorno, così da far perdere ai ragazzi un’occasione unica per comprendere come la curiosità ha generato i grandi artisti e poi la grande arte, per cogliere il senso profondo della Bellezza che non è scenografia immobile ma un atto di fede che costruisce la maturità civile. Togliere la letteratura che impegna, che costringe a sforzarsi per capire, che obbliga a fare i conti con sistemi umani e culturali complessi, ma che in cambio offre educazione e la strada per saper stare al mondo – che per questa generazione vale più di mille lauree triennali raffazzonate su in fretta e furia solo per accontentare i genitori a Matera o a Calvi dell’Umbria -.

Togliere perché questi ragazzi soffrono, svuotare, eliminare e riempire di nuovo con diritti, ancora diritti, nuovi diritti.
Susanna, ecco cosa accadrebbe. Ma per fortuna la tua è solo una sparata che lascia il Tamaro in bocca.