Fiume d’Italia, passione e morte di una città
Le città hanno un inizio, una vita, uno sviluppo ma, talvolta, per qualche tragico gioco della Storia — assedi, incendi, epidemie, carestie, eruzioni — anche una fine. Un giorno fatale in cui tutto finisce e restano soltanto rovine e silenzio. È il caso di Troia, Pompei, Leptis Magna, Petra, Angkor, Machu Picchu e le altre “città morte” disseminate nel mondo. Vi è però anche una morte senza distruzione. Il panorama urbano rimane più o meno identico, la vita continua a pulsare lungo le strade ma le voci, i suoni sono altri. Nulla sembra cambiato ma, nondimeno, tutto è differente. È quello che il professore Raoul Pupo chiama l’urbicidio, un sostituzione pressochè totale di popolazione. La sorte di Alessandria, Salonicco, Smirne, Leopoli, Konisberg. Il destino di Fiume e dei fiumani.
Ed è proprio a quel piccolo mondo perduto che il docente dedica il suo nuovo, ottimo lavoro “Fiume città di passione” (Laterza, Bari, 2018, ppgg. 328, euro 24). Un titolo azzeccato poichè quella pòlis racchiusa tra la Balcania e l’Adriatico è stata crocevia e simbolo di passioni intense e contrastanti. Violente e sanguinose. Una lunga via crucis.
Andiamo per ordine. La storia di Fiume è affascinante ma complicata. Difficile. Sin dal Medioevo da una parte vi è l’identità cittadina plurale (italica e mediterranea con pennellate tedesche, slave, ungheresi, ebraiche, greche, armene, albanesi) ma linguisticamente veneta, dall’altra c’è lo sguardo prima subalterno e poi sciovinista e, infine, xenofobo del circondario croato. Patriottismo di Civiltà inclusivo opposto ad un patriottismo etnicista escludente. Nazionalità culturale contro “sangue e suolo”. Città, porto e industrie contro periferie, contado e montagna. Due mondi vicini quanto distanti ma che sino alla fine dell’Ottocento, grazie alle complesse architetture politiche dell’impero asburgico, riescono a convivere e lavorare, progredire. Poi il Novecento, le spinte centrifughe dei nazionalismi, la Grande Guerra, il crollo della Duplice monarchia e l’Italia della “vittoria mutilata”.
All’indomani di Vittorio Veneto, Roma si ritrova sulla frontiera orientale la neo Yugoslavia monarchica, un vicino certamente più debole dell’Austria-Ungheria ma decisamente petulante e invasivo. Forte dell’appoggio del presidente americano Wilson e delle indecisioni degli anglo-francesi, Belgrado rivendica tutta la Dalmazia e, soprattutto, Fiume e il suo porto. È il momento della passione. Per i fiumani, nonostante la loro antica vocazione autonomista, la scelta diviene scontata, naturale: l’Italia. Il debole governo Nitti però tracheggia e rimanda ogni decisione. Alla fine è Gabriele d’Annunzio a decidere. Il 12 settembre 1919 — quasi cent’anni fa… — “l’orbo vate” valica il suo Rubicone e marcia da Ronchi su Fiume. Entra senza fatica, senza sangue. Tra gli applausi. Una mossa dimostrativa, prodromica ad una successiva marcia su Roma tutta dannunziana ma il progetto si blocca presto tra il Monte Nevoso e Lussino. Esercito, monarchia, massoneria, industriali (e anche Mussolini) del poeta-soldato non si fidano. Preferiscono attendere. Il seguito è noto.
Ma il pirotecnico pescarese è uomo notevole e trasforma la sua conquista in una “festa della rivoluzione”. La Reggenza del Carnaro attira sull’Adriatico eroi di guerra, generali, ammiragli, migliaia di ufficiali e soldati ma anche scienziati (Marconi), musicisti (Toscanini), scrittori (Marinetti), pittori e poeti. Un caleidoscopio coloratismo — si leggano i notevoli lavori pubblicati da AGA, la casa editrice “fiumana” del terzo millenio — in cui si ritrovano futuristi, nazionalisti, arditi, massoni, clericali, esoteristi, fascisti, socialisti, sindacalisti soreliani e una folla di stravaganti visionari e ”gentiluomini di fortuna”.
Con la follia del genio d’Annunzio (Pupo dixit…) innalza la città «in una sorta di capitale delle avanguardie europee: l’immaginazione al potere, si potrebbe dire, dove si vivono le esperienze culturali e politiche più estreme. Il nazionalismo diventa mistica della patria (anche 4 frati buttano la tonaca e si fanno dannunziani); la costruzione del consenso passa attraverso il dialogo diretto fra il capo e il popolo (Mussolini e Hitler impareranno bene la lezione); la Carta del Carnaro è un modello costituzionale assai avanzato; l’antislavismo più becero si accompagna alla volontà di liberazione dei popoli oppressi dalle potenze coloniali; l’arditismo diventa uno stile di vita condiviso (con qualche bizzarria, come quelle di Guido Keller, già pilota eroico, naturista, arruolatore di matti, che ha un’aquila per mascotte); la sperimentazione artistica è vita quotidiana, come la festa e la danza (e nei concerti agli strumenti fanno da contrappunto le bombe a mano); per il rifornimento della città si ricorre alla pirateria; l’erotismo (etero ed omo) dilaga e la cocaina pure».
Una ventura formidabile che entusiasma gli spiriti liberi di tutt’Europa (e non solo…) ma effimera. Le hegeliane dure repliche della Storia hanno il sopravvento sul sogno e l’allegria dei legionari. A Natale del ’20 Roma chiude a cannonate il capitolo fiumano, d’Annunzio si lascia (a caro prezzo) pensionare e viene costituita una stramba entità statuale autonoma inserita nell’orbita italiana. Una finzione giuridica. Quattro anni dopo Mussolini — ormai Duce — sancisce l’annessione del territorio, subito ribattezzato “Fiume d’Italia”. Segue un ventennio di pace contrassegnato da un’italianizzazione integrale — volta più a reprimere il municipalismo che lo slavismo — e da una lenta ma costante ripresa economica. Seppur periferica e lontana, Fiume per il regime del Littorio è un simbolo potente. Da accudire e difendere. Poi la guerra nel 1940, il disastro del 1943 e la tragedia del 1945. La “morte della Patria”. A pagare il salatissimo conto della disfatta sono le genti giuliane, dalmate e fiumane.
Riprendiamo Pupo: quando nel maggio 1945 le truppe jugoslave «entrano è evidente che non se ne andranno più. Subito parte una durissima repressione, che non colpisce soltanto i fascisti, ma in genere i patrioti italiani e soprattutto gli autonomisti, fieramente antifascisti ma contrari all’annessione alla Jugoslavia. Poi parte l’epurazione, in cui si procede alla confisca di tutte le aziende private, dalle industrie ai ciabattini. Nei confronti degli italiani, le autorità dovrebbero applicare la politica della “fratellanza italo-slava”, che però ha molti limiti. Si riferisce solo agli italiani “etnici”, non a quelli di origine slava, che invece devono venire “aiutati” a recuperare la loro identità “originaria” (beninteso, senza il loro consenso). Riguarda solo gli italiani “onesti e buoni”, cioè quelli disposti a mobilitarsi per l’annessione alla Jugoslavia e la costruzione del comunismo, battendosi contro il governo di Roma ed i concittadini che invece vogliono l’Italia. E’ interessata quasi esclusivamente alla classe operaia, non certo ai “borghesi”, fra i quali rientrano anche i ceti popolari urbani non proletari (artigiani, marittimi, pescatori). Tutti gli altri sono “nemici del popolo”, per i quali non c’è spazio nella Jugoslavia socialista.
I rapporti fra i cittadini e i nuovi “poteri popolari” sono subito pessimi. Opporsi non è possibile: i pochi che ci provano – soprattutto studenti – vengono immediatamente incarcerati o liquidati “per via amministrativa”. Comincia a partire per l’Italia, nonostante numerose difficoltà burocratiche, chi è troppo legato al precedente regime o troppo inviso a quello nuovo; se ne vanno i pubblici dipendenti largamente epurati; i professionisti che non hanno più una clientela; i commercianti che non hanno più di che lavorare; i negozianti che non hanno niente da vendere; i marinai senza imbarco; gli artigiani considerati come capitani d’industria. Le famiglie mettono al sicuro i ragazzi, perché andare a scuola significa andare a cercare guai. Ma partono anche operai, che non si riconoscono nel comunismo in versione croata e dopo che alcuni sindacalisti hanno fatto una brutta fine.
Nell’estate del 1948 entra in vigore la clausola del trattato di pace che riconosce ai residenti nei territori passati alla sovranità jugoslava che siano di madrelingua italiana, la facoltà di optare per la cittadinanza italiana e trasferirsi legalmente in Italia. L’opzione rappresenta la valvola di sfogo per tutte le tensioni accumulate nel dopoguerra e svuota la città. L’ultimo atto arriva nell’autunno 1953. Gli italiani sono andati via quasi tutti, ma l’immagine del centro storico è ancora bilingue. Durante l’ennesima crisi fra Italia e Jugoslavia per l’ancor irrisolta questione di Trieste, una folla tumultuante distrugge le ultime targhe, insegne, lapidi, scritte in italiano. Da quel momento Rijeka è una città integralmente jugoslava».
Così morì Fiume d’Italia. L’urbicidio perfetto e dimenticato.