«Il mondo moderno e la possibilità di starci dentro».

Rosai, dentro, non ci stava affatto. Assomigliava più a un’ombra di asta lunga che sfiorava la vita, aspettando inquieto tramonto.
Tramonto che poi avrebbe incendiato di realismo burbero, nei suoi quadri, dando fuoco alle botteghe dei piccoli pittori della mondanità. A chiedersi se Rosai ci stava dentro al mondo moderno fu Renato Guttuso, parlando di lui in accostamento a Francis Bacon (entrambi esposti allo sgarbiano museo di Palazzo Doebbing di Sutri). Rosai fu stimato da Francis Bacon, Baselitz e Gino De Dominicis, conobbe Giovanni Papini.
Amava circondarsi di vita pulsante per l’arte e la cultura italiana, nonostante tutto, come ricorda Frediano
Farsetti, che lo conobbe e di cui ci regala testimonianza: «sul tardi riceveva gli amici pittori. Dopo cena la compagnia si allargava, Rosai non dipingeva, conversava con poeti e scrittori, come Leonetto Leoni, Carlo Betocchi, Alessandro Parronchi, spesso arrivavano Vasco Pratolini, Carlo Cassola e tanti altri. Un cenacolo». Proprio Farsetti ci racconta che della sua vita, De Dominicis e Benigni avrebbero voluto fare un film.

Rosai nel mondo moderno ci stava dentro, e ci stava stretto. Come si vede, specialmente, nei suoi autoritratti, o nei ritratti. E per questo suo dimenarsi come perla caduta in una busta di vermi da pesca, in assenza di occhi, come cadaveri mossi da urti terzi in una vasca stretta, dobbiamo ringraziarlo, perché in un mondo carente di uomini, egli è stato uomo che dipingeva come era uomo (Guttuso), dissacrando la sua vita, tempestosamente anarchica e sofferta nell’ambiguità e nel nascondersi, dissacrando la divinizzazione dell’artista, le cui opere, odiernamente, valgono perché costano e non costano perché valgono, (Angelo Crespi ce lo ricorda così, a secco): cesso aurato parlaci del tuo fragile Cristo finto, Amon Ra, e dell’uso ingannevole che fai del tempo. Cesso, dovresti essere allontanato da noi! Cesso fosti e cesso rimani: Cattelan.

Ma cosa cazzo vogliono tutti? La vita di Rosai è dimensione privata, è un banchetto intimo e di stoffe sporche da condividere con quelli come lui: «da sempre avevo amore per certe creature destinate a vivere come di nascosto alla stessa vita». Brucia luce agli occhi di chi vuol vedere oltre. Scappate: «nel dipingere i miei soggetti, non fo che esaudire un misterioso bisogno d’artista che intende esprimere il sentimento dell’universo, poiché in un povero omino c’è indubbiamente maggior contenuto, una più grande somma di mondo, di Dio, di questa vita, nostra tragedia di povere creature». Grazie Ottone, per il pane nero quotidiano.
Pan duro e secco, profumo di lasagne domenicali, tasse e puttane, lattai sudati in bicicletta, carezze di madre accostate a una candela dietro gli scuri invisibili, solo immaginabile. Grazie Ottone, pietra pomice, per aver allisciato la vita dalla forma eroica, ogni tanto, nel ricordarci chi siamo PRIMA di partire per dire di diventare, o diventare davvero, eroi. Siamo quel che siamo nel giorno, ogni giorno, come nostro padre, nostra madre, i nostri amici. Siamo parte, e siamo maledettamente soli. Drammi da vivere, problemi da risolvere, paranoia di essere inutili, di sentirci inservibili, superati, ombre che sfiorano il tramonto perché la vita non le tanga. Grazie Ottone perché tutto questo terrorizza ogni uomo di buona volontà che vuole ragionare sopra le cose e mantenersi integro nella notte dei valori, dei replicanti, incapaci di essere sovrani di se stessi, perfettamente massa, in barba alla preghiera di Ortega y Gasset. Ottone Rosai ci porta per mano all’antieroe. E grazie Ottone, davvero. Mondaccio sempre più carente di uomini, sempre più gonfio di idee figliate da altre idee distrutte, rospo in doppio petto stretto a colletto. Soffocante vanesio di colti isolati, parlatori seriali di un teatro ostentato a ciarle ben composte. Accademiche. Uomini replicanti sovrastano, in gran numero, uomini integri, sovrani di se stessi. E grazie Ottone perché rendi sacro l’uomo, senza escludere Dio. Rosai ci porta agli ultimi, suoi vicini: «L’uomo di Rosai è colui che realmente campa la vita, magari
bestemmiando, agisce nel tangibile ambiente della propria identità», scrive Marco Moretti che ben ne conosce le opere, «Rosai è anima radicata nella fede del suo Dio, così come uomo è orgoglioso d’appartenere al ceppo del suo popolo, dal quale scaturisce, nella vita e in pittura, la sacralità per l’umano». Il Dio di Rosai esiste ed esita. Lascia macerare la santità, e la rende invisibile, quasi incredibile, come ampissima tribolazione. Rosai manifesta Dio negli ultimi. Quelli da Lui saranno i primi. I non santi che Dio coglie come margherite in un campo di immonda purezza e trasforma in materia celeste. Il Dio delle favelas e del sobborgo. Un Cristo affacciato nella periferia della vita. Forse in questo vi è più fede che nei farisei ordinati composti in fila per l’Eucarestia dopo le botte casalinghe alla moglie.
Ma sacro è anche l’uomo, per il grande artista fiorentino. Rosai non odia l’uomo, lo esalta. Quasi è dispiaciuto, impotente, nel vederlo imbrunire nelle proprie disgrazie. E tanta sua pittura, forse, è esorcismo a tutto questo. Allora, egli va ai confinati tra la normalità e il buio, quelli da scartare, da evitare, risparmiandoci, per fortuna, l’idealizzazione caravaggesca delle puttane. «Non era facile far accettare le figure che riassumevano il miserabile volto dell’Oltrarno: giocatori di toppa acquattati nei vicoli, mendicanti e cantastorie, operai e artigiani, fumosi interni di bettole e di caffè rifugio di quel popolo minuto, interprete

di umori e caratteri di una Firenze medievale e ferrigna ancora palpabile nel rigurgito dei vicoli», commenta Marco Moretti, «figure amate dai poeti ma respinte come espressioni ‘vernacolari’ da puristi della critica come Ugo Ojetti e Cesare Brandi. Eppure, il valore più autentico della pittura rosaiana risiedeva lì, anche quando certe immagini quasi caricaturali rischiavano il ‘vernacolo’ fine a se stesso».
Rosai carica di espressiva disperazione e assenza i suoi soggetti. Tra gli ultimi normali, non incalliti deficienti o criminali coi pantaloni marroni di lana e il grosso coltello in tasca, non avanzi di galera, ci porta a sbattere i denti sulla norma: egli per liberarsene, a noi per spaventarci. “Occhio a non finire così”, sembra dire, facciate della vostra vita un’opera d’arte, quella che Ottone, molto poco dannunzianamente non fece, seppur sfiorando il Vate. Rosai non ha voluto redimere un cazzo. Semmai è peggiorata la sua percezione del mondo, rispetto ai tempi dei brillanti paesaggi toscani. Fiorentino autodidatta, padre suicida. Combattente degli arditi e pluridecorato, poi scriverà il libro antieroico Dentro la guerra, che verrà censurato dal regime; avvicinato al futurismo da Ardengo Soffici, con cui nel tempo instaurerà forte amicizia, fu cofondatore del fascio fiorentino, «protetto da Bottai, che nel ’39 lo nominò per chiara fama insegnante al liceo e poi all’Accademia», scrive ancora Moretti, «era spesso sotto gli occhi dell’OVRA, sia per la sua omosessualità, segretissima ma non abbastanza, sia per una mai troppo chiara posizione politica». Conoscerà la violenza antifascista personalmente, dopo l’8 settembre 1943. Qui l’ambiguità più profonda tra la narrazione dell’eroismo fascista e dell’antieroismo rosaiano. Il cruccio, il nodo, l’incrocio. Il bivio, del tempo. Cosa
deve essere un uomo? Un eroe dell’inespresso o espressione eroica della quotidianità?
L’ambiguità segna la vita di Rosai, specie nella maturità, fortemente, come calda cicatrice da impressione. Impressione che si fa certa e diversa nei suoi quadri, specie nella serie degli autoritratti, dove il colore è ricco e pieno, ma sempre nascosto da una patina scura, dove via, via, la sua vita va scurendosi, senza più il lusso di nulla, neanche di una sciarpa blu, che accendeva forse di speranza, perché forse nutriva qualche speranza, L’Autoritratto del 1947. Rosai ci serve per rimanere agganciati al presente degli uomini, mentre fulgida, continua e costruita, cresce la coltura batterica dell’illusione della partecipazione e del potere globale, nel nostro essere stati sradicati dalle geometrie del reale, per essere chiamati all’Ulteriore. Ma non un Oltre divino, maggiormente fedeli, dallo spirito amplificato, quasi estatico, più maturi, conoscenti e consci nella Fede, bensì un’ulteriorità fisica rispetto al corpo, inservibile, inesistente, per manifesta impossibilità di sviluppare ragionamento sopra le cose e ulteriore coltivazione di se stessi, chiamati come siamo stati alla virtualità, convocati in essa in servizio permanente. Nella virtualità si mischia la percezione che abbiamo di noi stessi, del reale, dei processi ambientali, umani, sentimentali che ci circondano. L’identità si fa vaga e vana, si raddoppia. Siamo confusi, diventiamo ottusi e danteschi botoli ringhianti, e lì, nello smarrimento degli uomini, ancora prima che delle idee, occorre ricordare chi siamo, da quale placenta eravamo avvolti, in quale vicolo siamo cresciuti, in quale campo l’odore delle margherita e della cicoria accompagnava il nostro ridere cadendo, e cadendo ridere ancora. Rosai è un rasoio. Grazie Ottone.

(articolo scritto per la rivista Pangea)

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