Ci sarebbe da piangere, altro che ridere e divertirsi. Ci sarebbe da strapparsi la faccia e da fare un elisir di lacrime da bere in memoria di quando tutta questa miseria umana al potere sarà trascorsa, come l’asteroide che per poco non centra la terra. Ci sarebbe da piangere, non come la Bellanova che torna a ripristinare, dopo la Fornero e Conte, la primordiale e quanto mai curiosa usanza sessuale del politico italiano: scoppiare in lacrime mentre sta incul…o i cittadini.

Ci sarebbe stato da tirare il televisore addosso al muro quando ieri sera il divino faraone ha pronunciato queste parole, prima del pianto santo: “La cultura, non dimentichiamo neanche questo settore. I nostri artisti che ci fanno tanto divertire e tanto appassionare. Arriverà anche per loro l’indennità di 600 euro”.
Una superficialità accettabile, direte voi, in un quadro clinico, economico e psicologico gravissimo. Vero, una leggerezza semantica, quella del faraone; una questione che in un contesto di priorità nazionale non è certo urgente come le lacrime della Bellanova – eh, cazzo volete mettere? -, la nova Madonna di Loreto degli stranieri in Patria, per la regolarizzazione di 600 mila migranti. Un pianto santo che, però, arriva proprio quando si manifesta la pletora di invisibili tricolore, per loro disgrazia che rappresentano le massime istituzioni italiane; quando iniziano a sentirsi le lagne, i lamenti di dolore di un popolo di suicidi e disperati, di padri di famiglia che si alzano nel cuore della notte meditando a quale trave impiccarsi senza fare troppo rumore, partite Iva elemosinate di 600 euro che hanno azzerata quasi ogni speranza lavorativa per anni e un figlio possono solo sognarlo. Per non parlare di chi aspetta la cassa integrazione, di chi ha già chiuso l’attività. Di chi ha buttato una vita nelle fogne e, per giunta, deve vivere nel terrore e nella colpevolizzazione.

Eppure, però, è proprio la battaglia semantica che stiamo perdendo in nome della narrazione del reale e che incarna un principio ben visibile di questo nostro tempo circense e disgraziato: la volontà di discolparsi da tutto per l’incapacità di assumersi le proprie responsabilità. Volontà anche semantica, appunto: vedasi la meravigliosa follia dei “congiunti”, con cui dire e permettere tutto e niente. Stiamo perdendo la battaglia semantica, incapaci, nel tempo, a dare un nome alle cose. Sarebbe stato bello, difatti, sentire Silvia Romano, appena rientrata nella Repubblica delle banane marce del discount, considerate le sue scelte individuali su cui, volutamente santo Ignazio, non entrerò in merito, dire due cose: 1) grazie per avermi liberato dai terroristi 2) condanno fermamente ogni forma di terrorismo e segregazione, di umiliazione della donna e del Credo altrui.

Insomma, dopo questo pipponcello, l’extrema ratio: le parole sono importanti. Specie se pronunciate dal Presidente del Consiglio dei Ministri. Ma sappiamo “quanto Rocco Casalino abbia lavorato egregiamente. Quanto stia lavorando bene per impostare la comunicazione istituzionale del Governissimo”. Da un capo comunicazione che viene dall’intrattenimento, non ci si poteva aspettare che il governo che guida gli italiani non riducesse la cultura a mero intrattenimento, appunto.

Insomma, una questione, quella vista ieri sera in conferenza stampa, di pathos, ethos e sticazzi. Il Pathos indirizzato dall’Ethos traboccava (ridere con gli artisti, piangere per gli stranieri); come anche lo sticazzi, ne era pieno: sticazzi dell’arte e della cultura, che infiliamo sempre alla fine di tutto, tanto ci pensa Franceschini a dire che è tutto a posto, e sticazzi degli italiani che si impiccano, tanto a breve pioveranno miliardi sulle loro teste: c’è chi piange e minaccia le dimissioni, ma non per loro.

In fondo, diciamocela tutta, agli italiani della cultura non frega nulla, della coltivazione di un pensiero critico che nasce dalla summa dinamica di studi, esperienze, letture, dubbi colmati, riflessioni, visioni e intuizioni, e non dall’accatastamento statico di nozioni, magari rubacchiate e frettolosamente aggregate, a creare una mera percezione di conoscenza, dal web, dalle parole del sacro leader, dal talk show e un filino anche dai giornali. La cultura in Italia, esattamente come la Bellezza, sembra non partecipare più alla costruzione della vita quotidiana. Essa appare come un fattore estraneo all’edificazione della maturità sociale e individuale, un qualcosa di alieno, un vezzo da praticare se si ha tempo e danari per farlo, non una direzione, un orizzonte.

Nelle parole c’è lo Stato padre che abbraccia tutti i propri figli spaesati, esasperati, impauriti, stressati. Non c’è solo la volontà di comunicare qualcosa. Ma del resto, ben scrive Giulio Cavalli su TPI: “Non pesare le parole che si usano, per persone che lavorano con le parole, è indice di pessimi autori, una bruttina sceneggiatura e dialoghi buttati via: le conferenze stampa di Conte sono anch’esse uno spettacolo, una messinscena di rassicurante impegno studiata nei minimi particolari e per questo la frase risulta ancora più infelice”. Dalla “potenza di fuoco” – talmente tanta che ieri sera, durante la conferenza, avevo il tappeto davanti alla tv in fiamme -, a Winston Churchill, dai decreti/editto, alla confusione, gli anticipi, le contraddizioni, passando per le Faq come fonte di diritto, sino ai “congiunti”, una tristezza comunicativa. Almeno questo si potrà dire? Nessuno toglie la bellezza e la bravura del faraone ai trinariciuti, alle bimbe di Conte. Nessuno, giuro.

Per questo, il sacrificio di una vita, di chi ha scelto di percorrere la strada dell’arte, dovendo subire, dovendo fare spesso a cazzotti con sé stesso – per non farsi bruciare, annichilire -, con il mondo e col bisogno di mangiare per campare, facendosi chiedere spesso “sì ma che lavoro fai”, dovendo prendere due denari e molto spesso dovendo pagare per essere (da intendersi come fisicamente partecipe e, al contempo, come capacità di potersi esprimere). Chi ha scelto il sacrificio di valorizzare un talento, difendendolo a costo di tutto, di non sterilizzare la propria esistenza, parto di messaggi e significati. L’Italia di oggi non merita alcuna virtù e vada a farsi fottere. Però, tra gli italiani, si nascondono anche quei miseri giullari che hanno scelto una vita di sacrifici, vanificati, ovviamente, in un Paese rigido come un cetriolo che puntualmente va ad infilarsi nel solito ano comune. Pertanto che stiano in silenzio, gli artisti divertenti, e si prendano l’elemosina di quello Stato che li considera giullari alla corte del faraone, messi lì non per proseguire, con i loro atti teatrali, con le loro pagine, con la loro intelligenza e visione mentale, con i loro dipinti e le loro canzoni, con la loro capacità di ragionare sopra le cose, di rappresentare l’Assoluto ed estendere la Bellezza del creato, la millenaria storia d’Italia.

Allora ben parla Vittorio Sgarbi: “Il ‘mestiere’ dell’artista spesso richiede molti più anni di studio e preparazione di quanti ne siano serviti al prof. Conte per diventare avvocato e, visto che per fare questo “mestiere” non ci si può improvvisare come quando qualcuno viene messo a fare il capo del governo, ma ogni giorno bisogna studiare, comprendere e soprattutto metterci la faccia ogni sera davanti ad un pubblico, almeno, se non ha rispetto per se stesso nel suo ruolo di Presidente del Consiglio, lo abbia per le persone che sta mettendo alla berlina davanti al mondo”.

Dunque, perfetto. È tutto perfetto: nel regno del grande e divino Faraone, l’arte e la cultura non sono orizzonte, estensione della Bellezza del creato, né visione di popolo e di Stato, ma un divertimento a corte, un intrattenimento.

Nel frattempo, non è ancora chiaro, invece, quanta elemosina percepiranno gli attori drammatici e gli artristi.
Per gli artristi non c’è spazio.

Ridere, piangere, e a questo punto, perché no, vomitare, nel regno del Faraone dove tutto è possibile, anche che andando al mare non si venga salvati mentre si annega.

Ma in fondo, gli artisti, oltre a farci divertire, ci fanno “anche tanto appassionare”, Amon Conte sculpsit.

Divertirsi su sto ca..os.

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