L’Europa da salvare. Dalle elites europee
Non c’è pace in un Occidente sempre più diviso. Se il naufragio del G8 si è consumato sulla libera circolazione delle merci, un altro naufragio, quello del vertice dell’Unione Europea tenutosi ieri a Bruxelles, ha rischiato di consumarsi sulle politiche per l’immigrazione. Dopo il collasso della prima proposta di revisione del regolamento di Dublino, che non aveva convinto non solo il gruppo di Visegrad (che al meeting non ha volutamente partecipato), ma anche l’Austria e l’Italia e, alla fine, pure la Germania, anche quest’ultima riunione era destinata ad andare incontro a un inesorabile fallimento, non fosse stato per la disponibilità del Governo italiano a trattare, con una proposta alternativa che sarebbe ora al vaglio degli altri esecutivi in vista della riunione del Consiglio Europeo di questo giovedì.
Comunque sia, nello psicodramma continentale in atto, si registra la debacle soprattutto del presidente francese Emmanuel Macron, nel suo tentativo, appoggiato dal neo premier spagnolo Pedro Sanchez, di far passare come condiviso un progetto di revisione della gestione dei flussi, in considerazione del maggior numero di migranti economici rispetto ai rifugiati, che sarebbe invece, almeno sulla carta, ulteriormente penalizzante per i Paesi più esposti. La proposta di realizzare degli hotspot nei Paesi di primo approdo, che vedrebbe l’Italia chiaramente in prima linea a gestire l’emergenza migratoria, piuttosto che in Nord Africa, come richiesto dagli stessi italiani, ha sollevato dubbi e perplessità. Per capire il perché basta un dato: nel solo 2017 quattro Paesi di primo approdo si sono dovuti fare carico del 77% dei migranti in suolo europeo.
C’è però dell’altro. I recenti e scomposti atteggiamenti della Francia, che ha ingaggiato nei giorni precedenti al vertice una vera e propria guerra verbale a distanza con la stessa Italia e il suo nuovo Governo, hanno segnalato un nervosismo e una tensione senza precedenti nel consesso comunitario. Nervosismo forse causato dal fatto che, per la prima volta, le posizioni politico-ideologiche un tempo largamente dominanti in ambito UE si sono improvvisamente trovate costrette a una mediazione. Il dibattito al vertice infatti non è solo questione di realpolitik, anche se, in un certo senso, segnala proprio il ritorno di un’impostazione pragmatica nelle modalità di decision making dei Paesi periferici, dopo anni di silente sudditanza nei confronti dell’egemonia franco-tedesca.
Il confronto, al di la delle questioni contingenti in materia di migranti, che pure hanno la loro notevole rilevanza, è piuttosto tra due visioni del mondo: da un lato i Paesi, non solo Germania e Francia ma anche la Spagna, che presentano governi ancorati a un paradigma di pensiero liberal, trasversale rispetto alle categorie di centro e sinistra, caratterizzato da una passiva e positiva accettazione delle direttive del globalismo (ordoliberismo tecnocratico, libera circolazione di merci e persone) e del progressismo etico, dall’altro i Paesi, come Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Austria, Slovenia e Italia, guidati invece da esecutivi di impronta nazionalista o quantomeno protezionista, fino a pochi anni fa fenomeno circoscritto al solo Est Europa post-comunista. Esecutivi che rappresentano, in questo preciso momento storico segnato dai successi della Brexit, di Trump negli Stati Uniti e infine dei vari movimenti di destra populista, la corrente emergente, spinta dall’insoddisfazione delle ormai ex classi medie impoverite, dei cosiddetti “perdenti” della globalizzazione. Categorie sociali che, avendone ricavato solo svantaggi, non condividono più la narrativa e l’impostazione culturale del mainstream, partorita dalle elites.
Il vero spartiacque saranno con ogni probabilità le elezioni europee del 2019, che diranno definitivamente se per il cosiddetto populismo si sarà trattato di una parentesi oppure se questo sia destinato a essere maggioranza in seno all’europarlamento, con tutto ciò che ne conseguirà in termini di equilibri politici. Ciò non toglie che il confronto diplomatico che si sta consumando sul suolo del vecchio continente sia già oggi di non scarso interesse. Un confronto che si inserisce in un più ampio filone che riguarda tutto l’emisfero occidentale del globo, che vede contrapporsi la nuova linea Trump e quella del vecchio establishment euro-atlantico. Establishment di cui fa parte un’Angela Merkel più pacata, almeno in questo momento, nei confronti dei sovranisti, rispetto ai rappresentanti delle sinistre europee, come il francese Macron (che li ha definiti addirittura “lebbrosi“) o lo spagnolo Sanchez. La cancelliera tedesca vive del resto una situazione politica interna molto complicata, trovandosi a gestire, nella grosse koalition che la sostiene in patria, da un lato le istanze progressiste dei socialisti, dall’altro la CSU bavarese di Horst Seehofer, appartenente al PPE come la CDU della stessa Merkel, che sta ultimamente spingendo verso una linea più dura sull’immigrazione. Senza contare la progressiva crescita dell’opposizione nazionalista di Alternative Fur Deutschland.
Inoltre, se la sfida della Germania oggi deve essere quella di tentare di rafforzare il progetto europeo, di cui è Paese egemone, nonostante questi rapidi cambiamenti, tale risultato non si potrà di certo raggiungere con un atteggiamento ideologico o impositivo, quale quello attualmente in voga presso l’elite liberal, ma piuttosto con una visione pragmatica. Per questo non sarà d’ora in poi più possibile ignorare con sufficienza le richieste dei sovranisti, dei populisti e degli eurocritici. Occorrerà piuttosto il saperle integrare positivamente, al fine di evitare una deriva distruttiva rispetto alla costruzione europea, in una nuova visione che sappia andare oltre i paradigmi culturali di fine XX secolo, per ritrovare quel concetto di Europa dei popoli fino ad oggi rimasto, purtroppo, solo una bellissima idea.