USA, Cina e Russia tra guerre commerciali e de-dollarizzazione
Corre su un crinale rischioso la guerra dei dazi tra gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare Cinese, che potrebbe trasformarsi in una guerra anche finanziaria tra i due Paesi, un conflitto, in tal caso, dalle proporzioni potenzialmente imprevedibili. Il prossimo 6 luglio infatti, salvo colpi di scena, diverranno operativi i dazi voluti dal presidente americano Donald Trump per 34 miliardi di dollari su beni come macchinari ed elettrodomestici. Dazi cui, ha minacciato Trump, potrebbero aggiungersene altri per centinaia di miliardi di dollari, in risposta a eventuali contro-dazi cinesi. A proposito di questo, nella giornata di giovedì il presidente cinese Xi Jinping ha affermato a una delegazione di rappresentanti di multinazionali che “in Occidente si ha l’idea che se qualcuno ti colpisce sulla guancia sinistra, si porge l’altra guancia. Nella nostra cultura restituiamo il colpo “. Parole durissime, ancor più se contestualizzate in una situazione finanziaria esplosiva. Basti pensare che, nei primi cinque mesi dell’anno, gli investimenti cinesi negli Stati Uniti sono calati del 92% rispetto allo stesso periodo nel 2017.
LA MINACCIA DI UN'”OPZIONE NUCLEARE” E LA SPESA MILITARE DA RIDURRE
Da far rientrare in questo scenario la ventilata, da alcuni osservatori, ipotesi di una “opzione nucleare” da parte cinese, ossia la possibilità di una vendita massiccia di titoli del debito sovrano americano, che la Repubblica Popolare possiede in numero di 1,18 trilioni di dollari (su un totale di 20,7 trilioni di debito complessivo). Nel mese di aprile, quando la Banca Centrale della Federazione Russa ha venduto 47 miliardi dollari di titoli di Stato americani, dei 96 posseduti in totale, si è consumata la più alta svendita di titoli statunitensi da parte di Mosca. Forse si è trattato di un’anticipazione di quanto potrebbe accadere con la Cina? Chissà, una mossa di questo tipo, dopotutto, visti i numeri, sarebbe rischiosa per tutti gli attori coinvolti. Certo è che la retorica di Trump sulla necessità degli alleati europei di rispettare l’impegno finanziario per l’appartenenza alla NATO può avere a che fare con la necessità di ridurre l’enorme impegno statunitense nel settore militare, che assorbe circa un quinto del gettito fiscale annuale e potrebbe essere la chiave quantomeno nel tentare di ridurre l’esposizione del debito.
Nel frattempo tra gli analisti c’è chi, come Peter Schiff, ipotizza che l’avvio di uno scontro finanziario oltre che commerciale tra gli Usa da un lato e la Cina (e la Federazione Russa) dall’altro potrebbe accelerare il processo di transizione verso un mondo de-dollarizzato, cioè verso una fine dell’era del dollaro come unica valuta di riserva globale. Lo scorso 8 giugno, in occasione del meeting della Shanghai Cooperation Organization di Qingdao, in Cina, Xi Jinping e il presidente russo Vladimir Putin avevano rilasciato una dichiarazione congiunta promettendo, tra le altre cose, “il rafforzamento della cooperazione sino-russa nel settore finanziario, con l’incremento della percentuale di pagamenti in valute nazionali“. Una dichiarazione non poco significativa, considerando che la Cina è il primo partner commerciale della Federazione Russa, totalizzando il 15% degli scambi complessivi, per una cifra di circa 87 miliardi di dollari che, secondo alcune stime, potrebbe crescere fino a 100 miliardi alla fine dell’anno in corso. Al momento però, la quota di questi scambi pagata in valute nazionali è ridotta: il 9% in yuan, il 15% in rubli. Una crescita di queste percentuali, comunque già aumentate enormemente nell’ultimo triennio, significherebbe una sostanziale riduzione degli scambi in dollari americani. Al di la dei dati sull’interscambio, comunque, ad apparire chiaro è il significato politico del comunicato: Russia e Cina si preparano a lanciare una sfida alla supremazia del dollaro nei rispettivi mercati.
VERSO LA FINE DEL PETROLDOLLARO? LA GRANDE SCOMMESSA CINESE
A questo si aggiunge l’interscambio di commodities energetiche. Il mercato del petrolio vede infatti ormai la Cina al vertice dei maggiori acquirenti mondiali, per un totale di 162 miliardi di dollari, il 18,6% degli acquisti internazionali di crude oil. E, nello scorso mese di marzo, proprio Shanghai ha deciso di lanciare i futures sul petrolio in yuan. Un passo importante, considerando che uno dei capisaldi del predominio della moneta americana è proprio il petroldollaro, che si somma alla lenta e progressiva sostituzione degli scambi in dollari anche per altri partner regionali come, ancora una volta, la Russia e l’Iran, che di risorse energetiche sono invece importanti produttori. Ma, del resto, una scelta naturale, considerando appunto il primato cinese negli acquisti di oro nero.
A prescindere comunque dalle intenzioni cinesi (e russe), è difficile prevedere quali conseguenze potrà avere questa sempre più decisa sfida al dollaro che è pur sempre il più qualificato strumento del predominio geoeconomico statunitense così come emerso dai due conflitti mondiali. Di sicuro c’è solo che quella che il mondo sta attraversando, nel lungo autunno del “secolo americano”, è un’importante transizione. Verso cosa bisognerà scoprirlo.