Venti di guerra nel Nagorno Karabakh. Il territorio conteso ormai da decenni tra Azerbaigian e Armenia è stato oggetto, nella mattinata di ieri, domenica 27 settembre, di un attacco militare da parte delle forze azere. Ad affermarlo una nota rilasciata dall’autoproclamata Repubblica Armena del Nagorno Karabakh. Questa mattina presto la parte azera ha lanciato bombardamenti lungo tutta la linea di contatto. Stanno bombardando anche la capitale Stepanakert, chiediamo alla popolazione di mettersi al riparo”, si legge nella nota. Scontri, quelli avvenuti, che sono stati il culmine di una situazione di tensione aggravatasi fin dal mese di luglio.

In Armenia, il premier Nikol Pashinyan ha scritto su Twitter che “l’Azerbaigian ha lanciato un attacco missilistico e aereo contro l’Artsakh (nome armeno del territorio conteso, ndr). Insediamenti pacifici tra cui Stepanakert sono stati attaccati. La parte armena ha abbattuto due elicotteri e tre aeromobili a pilotaggio remoto. Rimaniamo forti accanto al nostro esercito per proteggere la nostra patria dall’invasione dell’Azerbaijan”. Per contro, da Baku, il presidente azero Aliyev ha replicato che l’Armenia starebbe ammassando “decine di migliaia di uomini in Nagorno Karabakh con un unico obiettivo, attaccare l’Azerbaigian”.

Così, mentre l’ambasciatore armeno a Mosca ha dichiarato che il suo Paese auspica che il gruppo di Minsk, la struttura di lavoro creata dall’Organizzazione europea per la sicurezza e la cooperazione (OSCE), co-presieduta da Stati Uniti d’America, Francia e Federazione Russa, si metta all’opera per risolvere la crisi. Le potenze internazionali, dal canto loro, non stanno a guardare: il Cremlino ha infatti dichiarato, parallelamente ai colloqui telefonici tra Putin e Pashinyan e per voce del ministro degli Esteri Lavrov, di auspicare un immediato “cessate il fuoco”. La Russia, d’altro canto, è uno storico partner dell’Armenia, Paese a maggioranza cristiano-ortodossa.

Lo stesso, tuttavia, vale per la relazione tra la Turchia e l’Azerbaijan, Paese a larga maggioranza musulmano-sciita e dalla forte identità turcofona. Non va inoltre dimenticato che il gas azero diretto all’Europa passa proprio attraverso il territorio turco. Così non è un caso che, già nel 2014, l’attuale ministro degli Esteri di Ankara, all’epoca agli Affari europei, Cavusoglu, avesse affermato che “l’Azerbaigian ha il diritto a riprendersi ciò che gli appartiene”. Oggi a quelle parole fanno eco quelle del presidente Erdogan, che conferma l’impostazione sempre più assertiva della Turchia nel contesto medio-orientale e centro-asiatico, promettendo all’Azerbaigian di sostenerlo “con tutti i mezzi”.

Dopo la Siria settentrionale, anche nel Caucaso si corre così il rischio di un’escalation diplomatica tra Russia e Turchia, due nazioni che, in seguito al tentato colpo di Stato contro il “sultano” del 2016, hanno avviato un difficile ma proficuo dialogo. Logico dunque che la situazione di potenziale scontro tra quello che ultimamente può essere considerato come un membro “inaffidabile” della NATO come la Turchia (che ha provocato in tempi recenti diversi imbarazzi all’alleanza, i più recenti con le tensioni con la Grecia nel Mediterraneo orientale), e quella che l’Alleanza Atlantica considera come una minaccia, cioè la Russia, sia osservata con interesse anche dagli Stati Uniti, per i quali (tenendo sempre presente la concezione di Nicholas Spykman per cui chi controlla il rimland eurasiatico controlla il mondo), al netto di ogni presa di posizione diplomatica, i territori della massa eurasiatica ai confini della Federazione possiedono un ovvio interesse strategico.

Anche la Repubblica Islamica dell’Iran, tuttavia, potrebbe voler giocare la sua partita, avendo tutto l’interesse a mantenere le tensioni tra Ankara e Mosca, partner in grado diverso, sotto controllo e anche in virtù dell’identità sciita condivisa con Baku. Il ministro degli Esteri di Teheran, Saeed Khatibzadeh, ha affermato che il suo Paese intende “usare tutte le sue capacità per stabilire un cessate il fuoco e iniziare colloqui tra le due parti”.

Infine, “un ritorno immediato ai negoziati, senza precondizioni, è l’unica via da seguire”, per il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel.

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