Quando, nel novembre del 2005, Angela Merkel prese le redini della Germania, due anni prima che Nicholas Sarkozy divenisse presidente in Francia, per l’Europa si aprì un periodo di parziale rottura con il recente passato. I due nuovi leader dei Paesi egemoni dell’Europa comunitaria, infatti, apparirono subito entrambi di chiara e netta postura neoliberale e atlantica. Una postura che fece sembrare subito lontani, lontanissimi i tempi in cui Chirac e Schroeder si erano opposti con decisione all’invasione americana dell’Iraq. Quel nuovo periodo, durato sostanzialmente fino al 2017, portò in dote, tra le altre cose, la concezione del TTIP, il trattato liberoscambista transatlantico che, nelle intenzioni dei suoi estensori, avrebbe creato un unico grande mercato uniforme tra le due sponde dell’Atlantico. Un trattato che fu investito dalle polemiche di chi sosteneva che avrebbe consegnato la sovranità degli stati europei, soprattutto in termini di diritto del lavoro, alle multinazionali americane.

Durante questa fase l’Unione Europea agì di riflesso, spalleggiando in maniera sostanzialmente acritica, soprattutto nell’era della presidenza Obama, le scelte dell’alleato americano in politica estera. Un periodo che ha lasciato in eredità la guerra civile nell’Ucraina orientale, le sanzioni alla Federazione Russa che hanno, di fatto, spinto Mosca tra le braccia di Pechino, il fallimento del progetto South Stream, che avrebbe condotto il gas russo in Europa attraverso l’Italia.

Terminato questo periodo, complici diversi fattori tra cui l’elezione alla Casa Bianca di Donald Trump, che definì l’Unione Europea “a foe” (“un avversario”) e il fallimento delle discussioni sul TTIP, i leader di Germania e Francia avviarono, più o meno a partire dal 2017, un’inversione di marcia che ha portato a nuovi e fruttuosi dialoghi con la Russia, alle dichiarazioni, sul finire del mandato, dell’ex presidente della Commissione UE Juncker sull’intenzione di sfidare il monopolio del dollaro negli scambi internazionali e ai propositi di realizzare una difesa comune europea, addirittura collaborando con Mosca, rilanciati più volte dal presidente francese Emmanuel Macron. A suggellare questa rinnovata voglia di autonomia dell’Europa, il rilancio del progetto per il gasdotto North Stream 2, raddoppiamento dell’omonima pipeline che, dalla Russia, porta l’”oro blu” verso l’estremità occidentale della massa continentale eurasiatica, in Germania.

Le cose, tuttavia, sembrerebbero stare nuovamente cambiando. A mettere Berlino in rotta di collisione con Mosca il caso di Alexey Navalny, l’oppositore russo filo-occidentale ricoverato proprio in Germania in seguito a un caso di avvelenamento. Avvelenamento per il quale la politica occidentale si è affrettata, come di consueto, ad accusare il Cremlino (che peraltro ha acconsentito al suo trasferimento in un ospedale tedesco). Tralasciando la palese irrazionalità di una simile teoria (la rilevanza politica di Navalny è riconosciuta prevalentemente in Occidente mentre, in patria, le sue percentuali di consenso sono al momento piuttosto irrisorie, intorno al 2% e senza che il suo partito abbia eletti alla Duma…), ciò che è trasparente, è invece l’interesse degli Stati Uniti e dei Paesi europei a loro più vicini, Polonia e baltici su tutti, di bloccare un’infrastruttura che consentirebbe sia a Berlino che a Mosca di ottenere un notevole vantaggio strategico sull’Europa continentale. Con North Stream 2, di fatto, raddoppierebbe il volume di gas che la Russia riesce, attraverso il Mar Baltico, a trasportare in territorio comunitario.

Da notare che, nel mese di agosto, la Germania aveva promesso di finanziare con un miliardo di euro la costruzione di infrastrutture a Brunsbuettel e Wilhelmshaven, per trasportare in Europa il gas di scisto americano, in cambio di una rinuncia, da parte americana, alle sanzioni su North Stream 2. Una promessa che, dopo il caso Navalny, non sembra più essere sufficiente alla Casa Bianca, che punta con decisione a far fallire il progetto.  A confermarlo è stato il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, che ha spiegato alla Bild come la Casa Bianca stia preparando una coalizione di Stati per fermare il progetto. Lo stesso presidente USA Trump si era espresso al riguardo, nei medesimi termini.

D’altro canto, in seguito allo scoppio del caso dell’oppositore russo, anche alcuni esponenti del governo di Berlino si erano spinti a minacciare una revisione del gasdotto e, nella giornata di ieri, la stessa Angela Merkel ha voluto simbolicamente far visita, in ospedale, a Navalny. Tuttavia, con un atteggiamento apparentemente schizofrenico, le dichiarazioni si sono fatte successivamente ben più pacate. Una scelta di questo tipo, per la Germania, sarebbe del resto a dir poco suicida, considerando la già menzionata rilevanza strategica e geopolitica di North Stream 2, completato per il 90% con investimenti per nove miliardi di dollari, oltre al fatto che, tra i partner, vi sono due gruppi industriali tedeschi: Wintershall e Uniper. Anche i presidenti dei sei Länder orientali della Germania si sono espressi, indipendentemente dal colore politico, contro l’ipotesi di fermare la costruzione del gasdotto. “Non posso dire che oggi ci siano nuovi sviluppi. Abbiamo più volte dato pieno conto su questo argomento”, ha detto invece nei giorni scorsi alla stampa la vice portavoce del governo tedesco, Martina Fietz.

Quella su North Stream 2, per la Germania e l’Europa, sarà una scelta altamente significativa. Resistere alle pressioni statunitensi vorrebbe dire aver fatto un passo ulteriore verso l’autonomia. Cedere, al contrario, significherebbe portare indietro le lancette del tempo. Oltre che, probabilmente, umiliare la dignità di un intero continente.

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