Emanuele Franz

Vulcanico filosofo, editore (è il fondatore della Audax Editrice), artigiano, promotore di concorsi culturali e restauratore di libri antichi: Emanuele Franz, 43 anni da Moggio Udinese, in Friuli, è un personaggio unico nel panorama culturale italiano. A riprova di questa unicità vi è anche il modo in cui, recentemente, ha affrontato una diagnosi di autismo: scrivendo un libro (“L’Io autistico” è il titolo), attraverso il quale ha voluto raccontare il cammino che lo ha condotto a scoprire la sua neurodivergenza e, al tempo stesso, a leggerla non come un limite ma come un motore di potenzialità creative e spirituali. Approfittiamo della sua cortesia per chiedergli di raccontarci questa esperienza.

Hai ricevuto una diagnosi di autismo solo di recente. Come lo hai scoperto?

“La diagnosi ufficiale è arrivata nel 2025, ma il cammino è stato lunghissimo. Fin da bambino ero ‘diverso’: non riuscivo a stare con gli altri, parlavo con un linguaggio mio, vivevo in un mondo interiore. Questo mi ha portato ad anni di consulti con psicologi, psichiatri, neurologi, ognuno con una diagnosi diversa: chi parlava di ritardo mentale, chi di depressione. Negli anni ’80 e ’90 non si sapeva cosa fare con bambini come me, se non tentare di forzarli a essere ‘normali’. Col tempo ho iniziato a sospettare di essere autistico. Ma l’autismo, va chiarito, non è una malattia: è una specificità neurologica, una neurodivergenza. La vera sofferenza non nasce dalla sindrome in sé, ma dal fatto che essa rende difficile il rapporto con l’esterno. Quando una persona autistica è nella sua ‘zona comfort’, non soffre affatto”.

Quali sono le principali incomprensioni sull’autismo, secondo te?

“C’è ancora molta confusione. Si parla soprattutto dei casi gravi e scolastici, mentre si ignora la vasta gamma di autistici che, con fatica, trovano un equilibrio. C’è uno stereotipo dominante che ci vede come esseri muti, dementi, isolati. Invece l’autistico ha intelligenza e anche intenzionalità sociale, ma ha difficoltà a negoziare le informazioni tra il mondo interno e quello esterno. Questo non è causato da traumi, vaccini o fattori culturali: è un funzionamento intrinseco del sistema nervoso. Si può parlare di ‘difetto’ solo nel momento in cui ci si misura con un mondo che non ci è naturale. L’autistico sta bene nella solitudine, nel silenzio, nella natura. Fugge l’artificiale, le maschere sociali, e questo lo rende impermeabile a certe dinamiche: non ha senso di appartenenza come lo intende la massa, fatica ad apprendere da modelli collettivi, quindi è costretto a sviluppare una creatività autonoma”.

Tu sostieni che l’autismo non sia solo una divergenza neurologica, ma anche spirituale. In che senso?

“Nel mio libro ‘L’Io autistico’, scritto con i neuroscienziati Sergio Zanini e Franco Fabbro, e con l’epistemologo Silvano Tagliagambe, esploro il legame tra autismo e sinestesia: la capacità di percepire suoni come colori o immagini come sensazioni fisiche. È una modalità percettiva tipica degli autistici, che rompe le barriere tra immaginazione e realtà e favorisce un tipo di creatività radicale. Ho avuto anche il privilegio di collaborare con Susanna Tamaro, che ha scoperto di essere autistica dopo i 40 anni. Entrambi condividiamo l’idea che l’autismo sia anche una condizione spirituale. Come scriveva San Paolo, siamo lettere viventi scritte nei cuori: credo che lo Spirito agisca nella carne, nel sistema nervoso, per introdurre nel mondo idee nuove. Ma per farlo, a volte, deve alterare i meccanismi ordinari dell’organismo. Da qui l’autismo, come possibilità d’emergere di un’intuizione fuori dal comune”.

Proponi, pare di capire, una visione rivoluzionaria: l’autismo come risorsa e non come svantaggio. Perché questa prospettiva è ancora così difficile da accettare?

“Perché l’autistico non è prevedibile. E questo disturba. Il marketing, la politica, il sistema educativo si fondano su schemi causa-effetto. Ma l’autistico non reagisce come ‘ci si aspetta’: non è persuadibile con gli strumenti del consenso di massa. È un soggetto creatore, non conforme. E dunque, in una società che misura il valore sull’adattabilità e sulla performance collettiva, risulta inabile. Ma lo sarebbe solo in questo modello. In un altro tipo di società – una che riconosce il valore dell’individualità, del contributo unico – l’autistico non solo sarebbe abile, ma addirittura essenziale. Purtroppo oggi viviamo tra due modelli fallimentari: uno tradizionalista, fisso e non inclusivo; e uno che predica un’inclusione illimitata e indistinta. Nessuno dei due funziona per chi, come noi, ha bisogno di autenticità e profondità”.

Cosa proponi, allora, per una convivenza più armonica con la neurodivergenza?

“Un nuovo modello sociale. Non una collettività uniforme, ma una comunità vera, dove ogni individuo conserva la propria indivisibilità. Un piccolo nucleo in cui ciascuno offre il proprio apporto rimanendo se stesso. L’autismo va riconosciuto come un modo differente – non inferiore – di processare il mondo. Richiede adattamenti, certo, ma restituisce alla società una straordinaria ricchezza. In fondo, molti grandi pensatori – da Nietzsche a Hölderlin – hanno avuto visioni così potenti da non riuscire più a tornare a una ‘vita normale’. Ma il punto è proprio questo: che cos’è, davvero, una vita normale?”.

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