Con l’Iran Trump ha cambiato il senso dello slogan “MAGA”
L’attacco diretto degli Stati Uniti di Donald Trump alle infrastrutture nucleari iraniane di Fordow, Natanz e Isfahan lascia il mondo con il fiato sospeso. Quella che si era presentata agli elettori come la presidenza che avrebbe terminato le “infinite wars” fomentate dall’élite liberal e neoconservatrice, dal cosiddetto “Deep State”, si è infine fatta trascinare in un’avventura militare che pensa forse di potere controllare ma che, in realtà, rischia di sfuggirle di mano e di finire dritta nel percorso invece sognato e immaginato dall’onnipotente lobby israeliana e dal comparto militare-industriale. Che, non è un caso, questo momento lo attendeva e lo preparava da tempo: la decapitazione sistematica dei proxy iraniani della regione (o supposti tali) da Hezbollah fino ad Hamas, sulla scia della vendetta per il 7 ottobre 2023, da parte di Israele, coronata dal definitivo crollo della Siria di Bashar Al Assad, non poteva che essere il preludio a un confronto diretto con quello che, per Tel Aviv, è il nemico di sempre: Teheran.
Così Trump si è trovato, proprio mentre erano in corso i negoziati sul nucleare iraniano sostenuti dalla sua stessa amministrazione, improvvisamente di fronte al rapporto AIEA che presupponeva che gli ayatollah avessero abbastanza uranio da realizzare l’atomica, poi clamorosamente smentito dal direttore dell’agenzia, Rafael Grossi (purtroppo e curiosamente solo dopo che gli attacchi reciproci tra israeliani e iraniani erano iniziati). Lo stesso rapporto, infatti, è servito da “semaforo verde” per le prime incursioni di Israele. In questo frangente, The Donald ha effettuato, confermando la propria imprevedibilità, un clamoroso cambiamento di posizioni: prima sostenendo i bombardamenti israeliani, poi minacciando un intervento diretto degli USA e, infine, facendolo slittare di due settimane. Salvo, poi, attaccare davvero e senza preavviso quelli che erano stati identificati come i siti-cardine del programma atomico della Repubblica Islamica. Un riavvicinamento alle posizioni dei neoconservatori alla Bush, con annesso e brutale “tradimento” del principio di non ingerenza caro al mondo MAGA del partito Repubblicano, al punto che i suoi dirigenti più esposti non hanno potuto mancare di sottolinearlo. Non a caso, per limitare le polemiche, Trump si è fatto ritrarre, mentre osservava i bombardamenti USA dalla Situation room della Casa bianca, con il cappellino rosso della corrente e lo slogan “Make America great again” ben in vista. Uno slogan e un concetto che, così, cambiano radicalmente di segno, adattandosi perfettamente a quello che è l’obiettivo vero e reale dell’élite finanziaria e militare atlantico-occidentale, che mal sopporta ogni vagheggiamento di possibili appeasement, anche se limitati, con i nemici giurati: stroncare manu militari la sfida all’egemonia del dollaro posta dalle potenze “revisioniste” eurasiatiche (più che dai BRICS, impalpabili sotto il profilo militare), Russia e Cina. Una sfida che si vuole attuare anche attraverso quella “Nuova via della seta” di cui l’Iran, importante partner e fornitore di materie prime per la Repubblica Popolare, è snodo fondamentale. Condurre il Paese verso una guerra con l’Occidente collettivo, per destabilizzarlo e, magari, favorire un cambio di regime, è quindi parte di questo piano più ampio, del quale fa naturalmente parte anche il conflitto russo-ucraino che ha creato un solco netto tra Mosca e l’Europa occidentale, altro obiettivo desiderato.
Questo disegno si innesta perfettamente sulle visioni messianiche alla base del “Grande Israele” quale unica potenza regionale egemone in Medio Oriente, non fosse altro perché l’unica realmente “nucleare” (seppur non dichiarata, in quanto non aderente al Trattato di non proliferazione e ai suoi controlli) dell’area. Visioni spinte dalle fazioni più oltranziste del sionismo, che oggi costituiscono le basi del non più solido potere di Benjamin Netanyahu. Il quale, è bene ricordarlo, a poche ore dall’inizio degli attacchi era in un’aula di tribunale, per difendersi da accuse di corruzione, frode e violazione della fiducia pubblica. Una debolezza politica, quella vissuta dal premier di Tel Aviv, che ha probabilmente contribuito ad accendere la miccia, per compattare il suo popolo attorno alla sua figura.
Il vicepresidente americano J.D. Vance ha intanto fatto capire, dichiarando che gli Stati Uniti non sono “in guerra con l’Iran ma con il suo programma nucleare“, che l’intervento americano aveva forse lo scopo, almeno dal punto di vista “MAGA”, di eliminare la “scusa” con cui Israele (ma in realtà, come sopra ampiamente esposto, anche l’intero establishment occidental-atlantico) vorrebbe trascinare Washington dentro al conflitto: le strutture di arricchimento dell’uranio di Teheran. Un’operazione rischiosissima che rischia, però, di condurre dritti verso uno scenario bellico che può incendiare tutto il Medio Oriente. E non solo. Soprattutto perché Trump e i suoi hanno già dato ampia dimostrazione di come non siano assolutamente in grado di frenare le pulsioni più “guerrafondaie”. Ma, del resto, sarebbe forse stato ingenuo aspettarsi altro.