Abusare dei significati dovrebbe essere fuorilegge. Nutrirsi di retorica populista come se non ci fosse un domani, per guidare le linee di un Paese in un momento in cui un giovane su due è senza lavoro, le tensioni sociali sono altissime, lo scontro tra due nuove generazioni di povertà, quella interna e quella derivante dall’invasione clandestina, è campanello d’allarme di una vera e propria bomba, sarebbe da evirazione, ammesso che la sotto vi siano attributi.

Attributi…

Ci vuole un bel paio di “attributi per chiamarla pacifica migrazione, come parte del divenire storico, come tante ce ne sono state, per necessità incomprensibili che spingono le genti al dinamismo.

Ci vuole un nel paio di “attributi” per riconoscere nella diarrea retorica e menefreghista dei leader europei, con al seguito il fardello Europa, la terra promessa, la culla del progressismo o del miglior liberalismo oltre gli USA. Il Vecchio Continente, ormai afflitto da Alzheimer ed eiaculazione precoce, dimenticando le origini, provando ad impiantare la legge del progresso e della mercificazione, genera mostri grossi così. Senza volto né memoria, immersi nella multietnicità forzata, nella sovranazionalità che schiaccia le coscienze nazionali utili alla formazione delle identità di una terra

Ci vuole un bel paio di “attributi” per non definirla invasione spinta da motivi economici e partita per motivi bellici, una sorta di carro dei vincitori, in realtà rivelatosi battello dei perdenti.

Ci vuole “coraggio” a pensare di considerare l’integrazione come sostituzione, a confondere la generosità con  l’imbecillità, la competenza e la capacità con gli aiuti di altri paesi Europei.

Sta di fatto che, mentre tutte queste dinamiche si srotolano random, i nostri buonisti non sono tali. Sono sciocchini che giocano a fare i buoni e, troppo spesso, a fare Dio. I buoni hanno il cuore dilatato, non il cerebro intasato. Ma i nuovi buoni, oggi, pascolano nei multietnici prati del potere egemonico delle sinistre in salsa progressista, svezzati con tutto ciò che ha un sapore conformista e massificante; lì, trovano l’humus adatto per crescere e per dedicare il loro travaglio intellettuale a strappare radici, non a piantarne.

In queste terre marcescenti crescono al sole d’Italia gli stereotipi della migliore qualità. Sagome pronte al consumo su larga scala, gustose e del tutto simili ad una vera visione sociale e politica, pensate per sfamare una gran fetta di cuori, per nutrire la maggior parte delle sensibilità comuni in fretta, ancor prima della solida formazione di una propria affidabile e lucida idea di realtà. Tra i migliori stereotipi prodotti nei campi del buonismo militante ve n’è uno di rara qualità: quando i migranti eravamo noi.

Noi, in realtà, siamo stati un sacco di cose. Etichette, miracoli ed esempi. Santi, poeti e navigatori. Esploratori, operai_italiani_immigrazione_dignità_signori_nella_disperazione_svizzeragenerali, inquisitori. Malandrini e mignotte. Poi, ad un certo punto, migranti, secondo qualcuno, come il culbianco. Eppure il nostro senso si sradicamento e di nostalgia è stato sempre fortissimo. Eravamo, più correttamente ed onestamente, emigranti; cercavamo fortuna, sapevamo di tornare e anche se non fossimo tornati, l’Italia era con noi. Siamo partiti alla scoperta, alla ricerca, alla conquista e, da quando esistiamo, alla pugna. Caravelle e bimotori, quinquereme e galeoni. Non ci siamo mai fermati e per passare la frontiera, per varcare la soglia, abbiamo sacrificato amori e figli, per fracassare il muro, abbiamo sputato sangue. Come cento anni fa, come nella Grande Guerra, quando non uno abbandonò il fronte se non in tre casi: da vincitore, in una cassa o con quattro pallottole nel petto a scandire le sillabe di disertore.

Abbiamo viaggiato, pregato, combattuto. Creduto. Abbiamo esportato, incantato, convinto. Eppure non abbiamo mai dimenticato l’origine, nella speranza del ritorno.

Per i nostri padri era tradizione comune insegnare la dignità.

“Quando i migranti eravamo noi”, eravamo sporchi, inadatti e goffi. Bofonchiavamo qualche parola in volgare. Avevamo un titolo di studio miserabile. Di certo non eravamo laureati in patria. Di sicuro, conoscevamo la nostra lingua a malapena, figurarsi parlarne due riuscendo ad esser persino comprensibili. Quando i “migranti eravamo noi”, non ci nascondevamo nel vano motore di un’auto, non ci siamo mai legati al sottoscocca di una carrozza a prendere i sassi sulla schiena, rischiando di rimanerci secchi. Non potevamo permettercelo. Eravamo troppo attaccati alla vita da mollarla così, da partirci da casa e, forse, non tornare più, proprio noi che il più delle volte uscivamo raramente dal paese, lì in Abruzzo. Non potevamo permettercelo, la famiglia a casa aspettava notizie, il nostro ritorno. Non ci siamo mai incastrati sotto il sedile del guidatore per fuggire, eccetto in qualche rocambolesca storia tra il lusco e il brusco, magari perché, quando “i migranti eravamo noi”, qualcuno ha osato cercarsi rogna in qualche viaccia malsana di New Orleans o perché la donna del capo era davvero femmina, che una femmina così, non si era mai vista. Eppure, “quando i migranti eravamo noi”, ogni fuga era una storia delineata, seppur asimmetrica ed incerta. Come tratti di matita, stilati da una mano tremolante di povertà e paure, di solitudine in terra straniera. Tremolante ma esistente. Non un’ombra che silenziosa passava.

Fummo migranti, di più: fummo signori nella disperazione.

Qualsiasi crisi e qualsiasi orrore ha visto adattarci al sacrificio estremo, senza mai perdere la logica delle azioni, l’umana dignità. Magari, tra una palata e l’altra a mucchi di terra e sassi, sottopagati e stipati in una casa comune per operai stranieri, davamo un occhio alla foto di “nostra” moglie, a centinaia di chilometri, pensando di tornare. In posa in qualche vecchia foto, impressionati, con i capelli polverosi.

Tra tanti nonni svogliati e, magari, un po’ truffaldini e sgherri, quanti nelle valli svizzere o in Argentina sono sopravvissuti all’emigrazione, si sono persino arricchiti, applicando quanto imparato nella vita, dal mestiere all’educazione. Per chi non delinqueva, si contribuiva all’ospitalità ricevuta, rispettando il Paese con la proprio operosità, con l’individualità dinamica della propria figura.

Abbiamo sempre esportato l’Italia, prima d’ogni altra cosa.  Per il resto “sarebbe da ricordare ai progressisti umanitari che la vera tolleranza non è quella esercitata verso gli eguali o verso chi vogliamo rendere simili a noi, ma verso chi è diverso da noi”, citando Marcello Veneziani.

Su Twitter: @emanuelericucci

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