imagesSenza il ricorso ad inutili pipponi retorici. Senza sciorinare l’intero ricettario per la cura di un’area, di un’idea e di una struttura politica ed umana.
Ieri c’ero. Ero lì. In terza fila di retroguardia ad assistere all’amore e al livore. Cento anni fa nasceva Giorgio Almirante, serata conclusiva, quello a cui potevi dare la mano senza rischiare di sporcartela, parafrasando Montanelli. Il peso della narrazione è incalcolabile, in questo caso; quello della cronaca, inutile. Così scrivo di getto.
La chiusura di un corteggio tribale che si rinnova nell’appuntamento con la tradizione. L’unico modo di porla in essere nel 2015, dalle nostre parti, come continuità, come patto generazionale, come trasmissione intergenerazionale, non come bigotta pratica stereotipata. La vera ed unica medicina, se deve essercene una, quella incrociata, per dirla alla Veneziani che ci collega, in verticale, con i nostri padri, e in orizzontale, che ci lega ai nostri contemporanei, alla nostra epoca, alle nostre abitudini spirituali.
Il popolo cerca ancora il suo capo ed è costretto ad alzare gli occhi per farlo. È costretto da invocarlo, nella speranza si palesi nuovamente. Eppure egli non è un Dio, né un feticcio da macello. È costretta a cercare il culto della linearità, dell’onestà. Quello a cui puoi stringere la mano, non il one man show. Quello che antepone il buon gusto della collettività e ne parla, ne è parte, ne è simbolo, ne è primus inter pares, che trasmetta l’abitudine all’italianità, resa come religione civile, che parli la lingua del volgo. Uno come Almirante, “tanto per rimanere in tema“.
Non una cerimonia ma il sighiozzo di una giovane donna disperata sulla lapide del suo uomo. L’urlo che vorresti penetrasse altrove ma non qui, dove già tutti conoscono chi fosse, Giorgio Almirante. Non è stato, però, amaro amarcord. Forse anche la variante statica della nostalgia militante, da non intendersi quindi come “quel dolore dolcissimo che pervade l’anima per una lontananza che sentiamo vicina e per un’assenza che sentiamo presente” (Veneziani) , ha stancato dalle nostre parti, forse. S’è intravista la volontà di attualizzare la l’eredità almirantiana nell’elastica ed ironica saggezza di Veneziani, nella teatralità romantica e romanzata viscerale di Buttafuoco, intervenuti ieri con l’arduo compito di incollare due epoche, ma non a fatica, non a forza; piuttosto fungendo da scivolo sentimentale. Parliamoci chiaro, si è parlato di ciò che siamo oggi, e forte si è sentito il peso sullo stomaco.
Non lontano dal mio sguardo incuriosito Donna Assunta Almirante, poi Storace, Meloni, Gasparri. La Russa ed altri, i soliti. Pareva il Gran Consiglio, c’era persino Altero Matteoli. Erano lì, attenti, passionali. Fermi. Erano lì ad ascoltare l’incipit ed il finale. Dove va questa destra? Perché ci si ostina a non comprendere che la modalità non costituisce il contenuto: il moderatismo, l’europeismo, il liberalismo di un’intera identità politica e culturale, di una comunità di uomini ed idee sono il mezzo, lo stile, il modo di essere non il contenuto, l‘obiettivo la visione, un po’ come in auto, sapere la velocità a cui si viaggia non include in sé il fatto di sapere dove si stia andando. Da quella Sala è arrivata la martellata ai dottorini, ai dottoroni, ai Galle(tt)i fermi sulla Loggia di turno a prescrivere la cura, ad indicare la strada verso l‘inconsapevole autodistruzione, verso l‘alienazione e la sparizione, a quella destra su prescrizione medica. Lo scatto d‘orgoglio, almeno quello, almeno per dare la parvenza di dinamismo.
Eppure si è detto qualcosa di destra. Si è preso atto dell’essenza primordiale: non può esistere un concetto simile, capace di penetrare con efficacia, di tornare ad offrire un modello sociale ed individuale, culturale, fondato sull‘onestà e l‘amor patrio, su delle chiare radici, strutturato, funzionale e di lunga durata, senza sovranità. La destra è sovranità. Geografica e spirituale, culturale e nazionale, in regime di democrazia. Dove c’è destra, c’è sovranità, interna ed esterna, capace di opporsi allo spirito oligarchico, di ammanettare i soliti quattro paraculi che, a sentirli parlare ed esistere, pare di assistere ad un continuo show, a mestieranti intenti a guadagnare gradimento, denari e posizioni, a one man show che parlano una lingua diversa e lontana da quella della gente.
Qualcosa di coerente c’è stato, in fondo. Ci si è interrogati, più che a trasmettere frettolosamente testimone, ad assegnare, come ad una pesca di paese, baracca e e burattini a qualcuno, magari al “solito“ di turno: chi potrà cogliere questa essenza, chi potrà portare avanti l’anima almirantiana?
Si è detto qualcosa di destra, ieri. Forse la cosa più di destra che si è detta, però, costituisce il finale più razionale e legittimo: ma quando arrivano i nostri?

Tag: , , , ,