Da Goro riparta la voglia di essere italiani, contro le élite che violentano i popoli
I fatti di Goro sono sintomo di un’Italia morente ma non ancora putrescente. Da non sottovalutare. Da non ridurre a capriccio di qualche italiano viziato che gioca a fare i moti del ’48, la ribellione, come il totalitarismo del bel pensiero vorrebbe far credere. Quella stessa che Renzi disconosce: “L’Italia che conosco li accoglie”. Presidente, sarebbe un onore non conoscerla, non averla mai conosciuta; lei e la sua banda governativa. Ci creda.
I fatti di Goro non rappresentano un vizietto da borghesucci europei tanto ricchi quanto stupidi. Non sono l’alba dei morti viventi. Diventano una necessità, una reazione di popolo. Popolo, quell’ex amante delle sinistre governative nostrane che non vogliono più vedere, con cui hanno chiuso i rapporti. Goro è Italia, consapevolmente Italia, non casualmente. Goro è fronte e frontiera non contro l’immigrato bensì avversa a chi ha legittimato questo disastro politico, civile, umanitario. È barricata contro la politica dell’estrema accoglienza e della sostituzione – della “grande sostituzione”, accennando a Renaud Camus -, della mescolanza a scopo di marketing. È logica e naturale reazione. Reazione che, però, non innesca un cambiamento. Mostra i denti degli italiani stanchi ma si ferma lì. Una reazione inattesa da un popolo che si pensava assopito e rincoglionito dalla avances delle élite, tornate viscidamente alla carica peggio che nell’Europa della Belle Epoque. Avances che trasformano i più basilari principi d’amor patrio in disgrazia universale, i confini in limiti fisici, l’identità in limite mentale. Italiano è fuori moda, coinquilino – di un mondo senza barriere -, no borders come gli piace definirlo, è l’avanguardia della civiltà. Élite che “perdono il contatto con i popoli”, per dirla con Alessandro Meluzzi, che “stanno violentando la volontà dei popoli”. Elite che confondo volutamente, diritti, doveri e ideologia. I doveri dello Stato, i diritti degli italiani e l’ideologia alla base dell’egemonia culturale dominante che regola i rapporti e condanna streghe a seconda di come il premier e la sua banda del progresso si alza la mattina, a seconda, ad esempio, della chiamata di Bruxelles. Élite che aberrano il razzismo e secondo il principio descritto poche parole fa, lo mischiano con una missione di Stato, lo praticano nella forma più subdola e meschina. Per il prefetto Morcone “a Goro devono vergognarsi”, per Alfano “quella non è Italia”, per il sindaco di Firenze Nardella andrebbero sanzionati i Comuni che si rifiutano di accogliere. Eccola, la nuova aristocrazia imperialista, la nuova “classe”, dotata di un titolo comprato su ebay, mai passato per le matite della gente. Élite che genera questi figli; figli di quei padri che rovesciarono sui binari il latte per confortare la breve esistenza dei piccoli di quegli italianissimi profughi che fuggivano dai proiettili, dagli stupri e dalle torture di Tito, che scappavano dalla morte nelle foibe.
Le barricate di Goro dovrebbero avere un significato mitopoietico, in questa Italia piatta, plastica, prevedibile e arrendevole. Qui dovrebbe nascere l’archetipo. Ben più di una riduzione a fatto di cronaca. Il villaggio si difende. Il villaggio non si fa schiacciare dalla morsa dell’informazione di massa, né dalle minacce dell’oligarchia. Le barricate di Goro dovrebbero generare comunità di rinforzo, dovrebbero risollevare l’orgoglio. Le barricate di Goro andavano sostenute. Non commentate. Errore di questa misera epoca che tutti commettiamo, io in primis scrivendo queste righe. Andavano sostenute fuori dalla virtualità, di persona, per tornare a nutrire la società di simboli, dovevano divenire emblema di un’Italia che non si arrende, non stupida come i feudatari del progresso vorrebbero far credere, capace di sputare bava e rabbia, di spaccarsi i denti digrignandoli, di mettere un legno sopra l’altro non contro i migranti ma contro chi disprezza l’Italia e gli italiani.
Anche in Francia “lo sgombero della Giungla di Calais ha generato tante piccole Goro”, come scrive Giovanni Masini sul Giornale: “sotto le insegne del “Liberté, Egalité, Fraternité”, migliaia di francesi sono scesi in piazza per protestare contro l’arrivo dei migranti nei loro Comuni. A Saint-Brevin-Les-Pins, alle foci della Loira, seicento persone hanno già sottoscritto una petizione per impedire l’arrivo di cinquanta migranti inviati dal governo di Parigi. Al villaggio borgognone di Chardonnay, da cui prende il nome il celebre vitigno e dove abitano appena duecento persone, sono stati assegnati cinquanta richiedenti asilo: in questo caso i cittadini hanno appreso dal trasferimento dai giornali. Proteste assai più violente si sono registrate a Loubeyrat, in Alvernia, dove un centro per rifugiati è stato dato alle fiamme nella notte di domenica. Ad Arès, nella Gironda, e aForges-Les-Bains, nei pressi di Parigi, le strutture di accoglienza sono state prese di mira dai vandali. Non più tardi di settimane fa una struttura destinata ad ospitare dei profughi è stata presa a fucilate durante la notte a Saint-Hilaire-du-Rosier, nel dipartimento dell’Isère. A Pierrefeu, nelle Alpi Marittime, e ad Allex, nella Valle del Rodano, i cittadini sono scesi in piazza per scongiurare l’arrivo dei migranti della Giungla”
Allora, da questa esemplificativa suggestione, volutamente scelta e posta, nasce una domanda che incarna una speranza: si può pensare che l’Europa potrà ripartire dalle necessità che accomunano i popoli delle sue terre anziché dai grandi principi che, evidentemente, non li legano più, ormai ridotti a carne da macello elettorale? Necessità di democrazia e libertà, di alzare la testa? Potrà ripartire, l’Europa, non da una moneta, non da un inno o da una bandiera, non da una legge sulla pesca ma da piccole, inestirpabili cellule d’identità territoriale?
“L’Italia che conosco li accoglie”. Presidente Renzi, sarebbe un onore non conoscerla, non averla mai conosciuta. Se amare questa terra benedetta è fuori legge, sono fiero di essere un bandito.