Dal tempio, allo scempio. Così hanno ridotto la chiesa ad un’orgia di pessimo gusto
“Va bene la musica per onorare il Padre. Ma si era detto di non esagerare!”
(Gesù di Nazareth)
Campi da tennis, vacche crocifisse. Bigotti agghindati a festa, a cui mancano le palle dell’albero attaccate alle orecchie. Turisti, biglietti da pagare, sacerdoti che hanno dimenticato il senso dell’omelia, fino a trasformarla in un quarto d’ora di noioso intrattenimento, un po’ come la ricreazione in terza media.
Cos’è questo nuovo fenomeno cult, un po’ trash, un po’ nostalgia canaglia di Albano cantata alla sagra del porco salato di Roccadisotto, con in sottofondo Sunshine, lollipop and rainbows, anziché il Te Deum? È la Chiesa. La Chiesa, benvenuti nel portale di transizione, dove si perde la ragione, dove sacro e profano si uniscono così tanto, da dare vita ad un’orgia disgustante.
Dal tempio, allo scempio. Chiesa consacrate, con la dignità di Dio. Chiese sconsacrate, con la dignità degli uomini, sul senso originario del luogo. Non c’è differenza.
Ormai nelle Chiese si trova di tutto. C’è il tennis, come riporta nel suo blog, il critico d’arte Luca Nannipieri: “La bellissima chiesa affrescata di San Paolo in Converso a Milano è lì a disposizione. Ci hanno steso il pavimento in pvc, il rettangolo di gioco, la rete, ci sono le racchette e le palline e, con un po’ di culo, puoi anche vedere se la tennista di turno, durante un rovescio, porta gli slip bianchi come Maria Sharapova, la bellissima russa che incanta i fans per le gambe e le sue mutande. Del resto le chiese storiche sono il luogo ideale per giocare a tennis e rimorchiare”.
C’è l’arte “contemporaneamente”, in quanto definizione: contemporaneamente contemporanea, e contemporaneamente un insulto al buon gusto, priva di ogni carica emozionale, di ogni spinta immortale, di ogni elaborazione tecnico-artigianale, perfetto matrimoney tra arte e modernità, priva di ogni immaginazione, banale, putrefatta, marcescente, che ha valore perché costa, parafrasando Angelo Crespi, e non viceversa. Che non ha ambizione, né estensione.
Come la vacca in chiesa, (in)degna opera dell’artista Tom Herck. Una vacca appesa alla Croce, davanti all’altare, in una chiesa di Kuttekoven, a Looz, in Belgio, consacrata al culto di Nostro Signore. Installazione autorizzata dal vescovo di Hasselt, monsignor Patrick Hoogmartens, come riporta il Foglio. Di male, in Belgio. Oppure, corre alla mente, l’enorme sasso senza forma, sospeso a mezz’aria, opera degli artisti Steinbrener/Dempf & Huber, nel cuore della navata centrale della chiesa gesuita di Vienna. Ma la lista, in giro per il mondo, è lunga.
Chiese come gallerie d’arte contemporanea. Chiese come flash mob per imbecilli, come compitino per casa, come botteghino, come bivacco. Biglietti da pagare per entrare nelle Cattedrali, selfie a San Pietro, un tempo centro della cristianità, ormai, tra voci, schiamazzi, rumori di otturatori virtuali e smartphone sembra di stare davanti all’Apple Store quando il grande Capitale partorisce l’ennesima cagata mangia-masse che tra le tante funzioni innovative, oltre a farti il bidet, telefona anche. A San Pietro, di eterno, è rimasta ormai solo la fila per entrare.
Ed ancora canti, balli, preti danzanti, fedeli che si prendono sottobraccio. Centinaia di video spopolano in rete, inutile e impossibile citarli tutti. C’è Don Bruno, parroco di Margno (LC), che canta i Mamma Maria dei Ricchi e poveri ai matrimoni, per “arrivare al cuore della gente”. Ce n’è un altro che canta, e balla anche, Mario Mengoni, mettendo su una coreografia da Amici di Maria De Filippi. C’è quell’altro che, durante la funzione, fa uno spogliarello, con la scusa del suo compleanno, per mostrare la maglia della Juve, portata sotto agli abiti sacri. Un Don Bruno, chissà che non sia quello che canta ai matrimoni, come Peppe e Giovanno, che hanno tutto il repertorio disponibile, dall’arrivo degli sposi al ristorante, fino al taglio serale della torta.
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Ahhhh, e come non citare il coro dei fedeli fomentati dopo la danza, durante una messa? “Si vede, si sente, Gesù è qui presente!”.
QUESTA CHIESA È PORNOGRAFIA INDIANA. Fatta male, insoddisfacente, inguardabile. Vergognosa, umiliante. Umiliante per tutti, specie per chi, credente, sta ancora facendo i conti con la partenza di Cristo per il Sud-America, dopo una forte litigata al telefono. Dio ha abbandonato queste terre, è partito, s’è fermato ad Eboli, ha preso un aereo ed è volato in America Latina, lasciandoci una latrina di improvvisazione pontificia, metà green, metà Jefferson Airplane a Woodstock ’68; metà Manu Chao, metà francescana; metà religiosa, meta-religiosa.
Come figli dell’Impero romano, dovremmo essere incazzati due volte. Soprattutto perché, morti i padri, abbiamo asfaltato quella stradina sterrata preziosissima, quella del Ritorno, che ci conduceva a loro; e a suoi bordi, abbiamo aperto tanti fast food. Così, noi italiani, su tutti, che dovremmo essere faro di spiritualità, richiamo e riferimento fermo nel mondo che vuole necessariamente autoannullarsi, abbiamo cancellato l’armonia di una comunità realmente emancipata, laddove, anticamente, eravamo noi a dettare le linee guida della maturazione civile, artistica, politica, filosofica, sempre subordinando al sacro il nostro Essere, le nostre città, persino la dignità dell’arte. Dedicandoci la vita. Dedicandoci la strada.
Sacro.
Ciò che sconvolge, però, è la scomparsa di Dio dalla quotidianità. Tre fattori vengono a mischiarsi: la provincializzazione dell’esperienza divina, ridotta ad un compito per casa o ad una casualità necessaria – come festeggiare il Natale odiandosi. Ritualità frigida, una cantilena senza fine, in ambo i sensi, e senza fondo, che fa vestire bene la domenica per andare in Chiesa. Dio diventa una vuota pantomima, uno stereotipo di inserimento sociale, o di servizio, qualcosa “da fare” che non svilupperà nessuna dimensione interiore -, e poi l’abitudine a dare una forma ed un fine materiale a qualsiasi cosa ed infine la (non)scoperta del fatto che, nicceanamente, Dio è morto sotto il peso della Tecnica – in quel grido disperato della Parabola del folle: «Dio è morto! E noi lo abbiamo ucciso!», che non rappresenta la constatazione della Sua inesistenza, anzi, l’innalzamento disperato a supremo valore, proprio mentre trionfa la Tecnica. Definizione estremizzata al massimo dai “moderni”, che ha visto in essa, con il progressivo sviluppo della scienza, la via per giungere al benessere economico e alla serenità della classe borghese – come da accezione negativa nel pensiero jüngeriano -, soffocando ogni ulteriore manovra di rianimazione divina e mitologica, proprio nella grande assenza di significati che aiutano la vita ad essere, prim’ancora di tutto, della politica, dello stress, delle elezioni, di un’erezione.
La disabitudine alla religione o alla coltivazione dello Spirito, è disabitudine alla civiltà, intesa come evoluzione pubblica e interiore del civis, del cittadino. Ad un’ispirazione che lenisca le paure materiali, quotidiane, che riempia i vuoti. La religione, aiuta la vita e avvezza alla morte, al dolore, alla solitudine, alla vecchiaia. «La modernità atea – dice Marcello Veneziani – li addormenta, li alleva; e, tramite lo svago, simula, eccita e distrae. Non muta il verdetto ma il tipo di consolazione»
La meccanica scava i fondali degli oceani, ci fa correre sempre più veloce sulle strade. Ci brucia le retine di bellezza chirurgica che non crediamo più possibile altrove. La scienza cura, affina la tecnologia per permettere qualsiasi gesto accomodante, coccolante, riduce ogni curiosità e minimizza gli spostamenti; inventa un’app per qualsiasi cosa, porta oltre il sistema solare stando su un divano in streaming, mentre gli uomini si atrofizzano, perdono il tono muscolare, non sentono il bisogno di dedicarsi la vita, ma di assisterle come spettatori paganti. Io pago, quindi voglio. Li porta a sentirsi eroticamente appagati dell’abbraccio del consumismo che li studia, li indirizza, li sperimenta e poi li accontenta di risultati tangibili, visibili, che limitano, sempre più marcatamente, ogni moto spirituale, ogni parte dinamica dell’anima, compresi i sentimenti, da una preghiera, alla semplice voglia di capire, di ragionare sopra le cose, di crescere mentalmente, di non avere quello che tutti hanno per sentirsi parte del mondo, di ricercare un legame, di capire la primavera, di vivere la natura e chiedersi se su quel masso enorme, sopra al torrente, tutto ha avuto origine.
E il concetto di spiritualità, di Fede, di Dio, torna ad essere questione marginale, rispetto alla notorietà su Facebook, un dettaglio tra le tasse, la strada per andare a cercare lavoro e la proprio crisi familiare, nella volontà di uscire dalla sofferenza e ritrovare un mondo sano e non matto.
Dio appare inconciliabile con la complessità ed è pericoloso per la modernità: una regola formativa di vita pura, un richiamo troppo esplicito alle radici che hanno formato il volto delle comunità d’Occidente, i suoi albori che hanno fuso paganesimo e fede, che hanno evoluto gli uomini dei villaggi.
Il resto è una rana crocifissa, opera di Martin Kippenberger, o il Cristo immerso nel piscio, opera di Andres Serrano.
2017. Nelle chiese c’è tutto. Campi da tennis, con relative partite (ne parla Luca Nannipieri in un pezzo di oggi), vacche crocifisse, opere d’arte mostruose e poco adatte, bigotti vestiti a festa, turisti, preti che non colgono il senso dell’omelia e la fanno passare come la ricreazione alle scuole medie.
C’è tutto. Mancano solo i FEDELI.
Dal tempio allo scempio.
Due domande: 1) che cazzo c’entra tutto questo con la Chiesa? 2) Dov’è la fermezza dell’Istituzione religiosa, la medesima che c’è nell’imporre tolleranza e accoglienza verso chi migra? Segnale del fatto che tollerare gli amici ha stufato, dopo secoli, proviamo qualcosa di nuovo, qualcosa di esotico…
“Abbiamo conosciuto Dio molto tempo fa. Ed ora, dopo anni di amicizia, lo stiamo allontanando da noi, cacciandolo dalle nostre terre. In ambo i sensi: il Dio cristiano dell’Occidente e il senso di spiritualità e tradizione che pervadeva noi tutti. Il Genius Loci, lo spirito guida, la narrazione di come i nostri rit(m)i siano stati generati. Nei crocifissi rimossi dalle aule, nella volontà di lasciare Dio fuori dalle carte ufficiali dell’Unione Europa, nelle chiese vuote, nelle ore di religione a scuola che non portano da nessuna parte, fino alle centinaia di cristiani in Medioriente massacrati, genocidio in streaming; nelle contraddizioni della Chiesa si confonde il dogma. Tra Benedetto XVI e Papa Francesco, tra la strenua difesa della tradizione cristiana, un Dio vivo negli uomini integri, fino ad una chiesa più pop, che chiede ad ogni cristiano, già vessato dal suo tempo, di farsi da parte per i fratelli migranti col volto di Gesù.
Un uomo rigido, non avrà estensione verso l’Assoluto, ma neanche verso il passato epico, mitologico. Non riuscirà ad espandere se stesso, affidando la propria vita a ciò che vive materialmente, senza consolazione.
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Gli uomini sono stati svuotati di profondità, convinti che ogni collegamento con ciò che è superiore a noi, divino, sia azzerato dalle conquiste della scienza, della tecnologia, nell’appagamento. Il mistero è ridotto a riviste sciatte. Il mito è una “favola che viene sempre meno raccontata”.
E gli uomini non vogliono Dio, ne sono indifferenti, lo ritengono superato, per questo lo stanno ammazzando, permettendo che se ne reprima l’immagine. Vogliono un genio della lampada, che li rassicuri, che realizzi, li appaghi. Che li tocchi. Un Dio erotico che provochi piacere istantaneo; che li salvi dalla catastrofe, che guarisca le malattie dei loro figli, senza aver dedicato un solo minuto fuori dalle loro richieste, a coltivare lo spirito, la fede, non solo misticamente, ma anche come completezza terrena dell’individuo. Aridamente, senza aver mai percorso neanche la strada “originaria” del mito”
(E.Ricucci, Torniamo uomini, ed. IlGiornale, 2017)