Evviva il capotreno che ci ha ricordato che senza biglietto si scende dal treno. A scriverlo dieci anni fa, si rischiava d’esser presi per sciocchi bacucchi. Scriverlo oggi, invece, è perfettamente in linea col rincoglionimento generalizzato che infesta l’anima comune. Uno sentimentalismo armato a targhe alterne: si piange a comando e solo per certe disgrazie di questo Paese.

E allora senza biglietto si scende, come dalla tratta Villamassargia-Cagliari. Fermate il mondo giullaresco dell’empatia, senza biglietto si scende. Chi l’avrebbe mai detto che un capotreno nel pieno e regolare svolgimento delle proprie funzioni potesse diventare un Masaniello dei giorni nostri? Dietro alla capotreno che ha fatto scendere trenta immigrati “abusivi”, non c’è solo una regola fatta applicare. Del resto, ne parla tutto il Paese. Ma come si può invadere i social, i giornali, le giornate, parlando di un’impiegata che ha solamente e col dovuto rigore svolto il proprio lavoro? Perché dietro c’è un’evocazione che è una disperata speranza lontana. A ricordare, simbolicamente, che senza biglietto si scende, con quel piglio, con quella decisione, nella frattura del sentimentalismo tiratissimo che si cela dietro a ogni volta che si pronuncia la parola “migrante”, c’è la metafora di una vita prossima necessaria. Qualcuno, tramite una regola vecchia come l’Italia ha riportato banalmente, fedelmente, logicamente, semplicemente, la realtà al suo posto, riequilibrando, dopo settimane di poveri immigrati a Riace, poveri immigrati in Francia, poveri migrante in mare, poveri immigrati in Italia, i ruoli: che tu sia immigrato o italiano, da cinque minuti o cinquanta generazioni, vuoi stare sul treno? Devi pagare il biglietto, o scendi. E se vuoi, te lo dico anche in inglese.

Senza l’Unione Europea che approva la tua vita sovrana, si scende; senza un migrante in pole position nei diritti, si scende; senza la sinistra che esercita violenza mediatica o fisica nelle sue varie espressioni, da un manichino bruciato, al tweet di un giornalista che vorrebbe tutti i fascisti appesi a testa in giù, nel 2018, o una bomba alla sede della Lega in Trentino, che rilascia patenti di civiltà, che orienta il gioco globale e culturale, si scende; gli italiani scendono sempre, pur avendo il biglietto: il diritto di ritrovarsi tali. E di aver fatto altre scelte alle urne oltre alla sinistra, oltre a questa gestione d’Europa, oltre ogni core grande per tutti gli immigrati del mondo. Il biglietto della propria consistenza della consapevolezza della propria identità sballottata tra la decisione dell’Impero e l’assistenzialismo da reddito di cittadinanza, mentre pezzo per pezzo della nostra qualità industriale vola all’estero. Il biglietto che è lo scotto da pagare per continuare a viaggiare, e viaggiare ancora nelle dimensioni del tempo, come italiani.

E allora da quel treno arriva il contrario: senza biglietto scendete voi. Scenda la sinistra, scenda l’Ue, scendano i gli immigrati. Scenda Mimmo Lucano, se non gli sta bene come stanno le cose, scenda Juncker con tutto il fiasco, scenda l’Onu, secondo cui i “migranti portano solo sviluppo“, senza nessuna frattura sociale, con una “perfetta e geometrica integrazione”, scenda l’antifascismo militante che predica amore e pratica odio. Scenda chi si sente nemico di questo Paese. Oggi fare il capotreno, il sorvegliante, controllore, o una figura simile su un treno è diventato un incubo. Ci vuole una preparazione fisica e psicologica che forse nel Battaglione San Marco. Magari per non essere violentemente aggrediti. Del resto anche la decadenza si sposta e sceglie sempre il treno. Il capotreno, fante di confine, ultima trincea, soldato isolato, faccia a faccia con la decadenza, eroe moderno. Ma oltre alla sottile lama argentea della provocazione, scendere dal treno è la metafora di ciò che ci serve. Un brusco risveglio, un ritorno netto alle logiche annodate della realtà. In un’Italia che delinque, perisce e rantola, fermate il mondo che voglio scendere. “Dai il buon esempio a tuo figlio, spiegagli che un servizio lo si deve pagare. Non è giusto, siete più di 30 ragazzi. La gente paga per viaggiare, parliamo di tre euro di biglietti”, afferma la capotreno, che ora verrà impiccata all’albero dello scandalo, parlando con quegli immigrati.

Scendere ora dalla rivoluzione francese, dagli inti illimani con la birretta, dal pueblo unido in nome di un confine che ormai esiste solo a Risiko, nella perfetta ignoranza del fatto che la cura della propria casa non significa estromissione dal buon senso, dalla civiltà, dalla modernità, o stare fuori dal circuito della tolleranza, ma semplice regola essenziale di vita intima, come la casa rappresenta, estensione della comunità e del sacrificio comune, e sociale, l’ospite invece è prolungamento del proprio desiderio, della propria dimensione. Senza biglietto si scende, si alzano le gambe spaparanzate sul sedile vuoto di fronte e si scende. Regole! Un disperato bisogno di regole!

Semplici, metaforiche, care e vecchie regole. Ora che tutto è relativo in base a un criterio democratico stabilito in dieci.

Il biglietto (da pagare), metaforico, concreto e provocatorio, è un confine oltre il quale non andare. Specie ora che lo svolgimento della realtà è divenuto un concetto teatrale, tutto è soppesato per dividere e imperare come un’idea culturale. Diventa “cultura” (e non nel nobile senso di una coltivazione che fa giungere all’elaborazione di un pensiero critico col quale riconoscersi e riconoscere il mondo), ogni cosa, dalla biologia, all’interpretazione della legge, dal razzismo sempre presunto ma schiacciante e in modalità on di continuo, alla difesa della propria abitazione dai ladri. Il confine che si sta cancellando lentamente non è solo geografico.
Riesce a fare scalpore, nella società del nonsenso, persino un uomo o una donna che svolge il proprio lavoro. E la realtà è da sbattere in faccia alla narrazione che l’ha sostituita, una narrazione contaminata, ideologizzata, del tutto. Il tutto spirituale, politico e maggiormente culturale, ovvero capace di influenzare la propria coltivazione, la generazione del proprio pensiero critico, di quel salvifico angulus oraziano entro il quale rifugiarsi per costruirsi e vedere il mondo, da cui uscire solamente maturi.

Lunga vita alla partita iva (con cui si muore) che ogni mattina nelle sue disgraziate tasche, conta gli spicci, precisi, come chicchi di grano, per pagare il biglietto del treno che lo porterà al lavoro, a fatturare, sì, a crepare lentamente in una partita (iva) che se non cambia, perderà contro una percentuale.

Ich bin ein capotreno!

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