Questa non è una lectio magistralis sui massimi sistemi. Ma una poco compassata mediazione sulla prossimità.

Mi sono rotto i coglioni!

Genova. Od ovunque sia.

Botte, su botte, su botte, su botte, su botte, su botte, su botte, su botte, su botte, su botte alla Polizia. Che poi, fantozzianamente, s’incazza per davvero. E talvolta, s’incazza fin troppo, a forza di attutire, magari colpendo chi c’entra poco, o forse nulla.
Ferma, immobile, schierata. A prendere mazzate da sterili e lombrosiani fasci di nervi che escono dalle gabbie di sicurezza montate sui mezzi del Reparto Mobile, colpiscono e, come di loro buona abitudine, tornano a nascondersi.
Ancora, e ancora, e ancora, e ancora, e ancora. Anno dopo anno, dopo anno.
Ma perché!? Ancora, una volta ancora. Il consueto casus belli: impedire lo svolgimento di un evento pubblico autorizzato di una compagine politica che si esprime nei ranghi della democrazia per chiudere la campagna elettorale, come succedeva con Casa Pound Italia. Volere la democrazia, vietandola.

Ma siamo tutti impazziti? Siamo totalmente usciti fuori di senno. Esplosa la zucca. Non importa il motivo, la manifestazione, la contingenza: è impossibile rendersi conto che l’antifascismo in questo Paese pulcinellesco, felliniano, è uno dei fattori chiave della contrapposizione e della divisione sociale, della violenza urbana, della frammentazione della pace civile, della morte del dibattito, del pensiero critico?

Questa non è un’invettiva ideologica, né un appello fazioso. Scrivo, come di consueto, da uomo libero. 

È inutile dirlo. Non si viene ascoltati. È inutile chiedere alla politica istituzionale di prendere le distanze. Non solo non lo farebbe ma rischierebbe, a suo modo, di partorire uscite francamente evitabili, come quella di Nicola Fratoianni o di Donatella Di Cesare. Il primo capace di chiedersi perché la Polizia sia una risorsa dello Stato sprecata a difendere i fascisti, la seconda, addirittura, dall’alto della sua necessaria santità, ci richiama all’attenzione, twittando: “La #polizia di un paese democratico difende un gruppo di #neofascisti che si richiamano al passato del totalitarismo razzista. La polizia aggredisce con #violenza i #cittadini che vorrebbero impedire quella manifestazione. Succede in Italia – #Genovamaggio 2019. Attenzione!”.

Cosa ha visto, dunque, la Di Cesare? Quelli che picchiano i poliziotti con delle spranghe, commettendo nello stesso momento vari reati, sono degli innocui cittadini che vogliono difendere la democrazia dal gruppo di neofascisti? Ma ci siamo bevuti il cervello?! O siamo nel pieno coup de théâtre di marketing ideologico, in piena sindrome della visibilità? Ricordando come la Polizia di un Paese democratico non possa e non debba compiere scelte: proprio perché presente in quella piazza come “strumento” della democrazia, deve poter garantire a ognuno di esprimersi liberamente e in serenità, attenuando ogni tentativo antidemocratico di impedimento di questo processo.

GUARDA IL VIDEO (Il video è dell’avvocato Marco Mori, a Genova per chiudere la campagna elettorale di Casa Pound, registrato in diretta durante gli scontri)

https://www.instagram.com/p/Bx1uFaMFsyU/?igshid=i1opd3fek6x0

È inutile dirlo, pensarlo, vale la pena chiederselo pubblicamente: le vetrine rotte, la città danneggiata, la paura dei passanti, le botte sul casco ai poliziotti, padri di famiglia, servitori dello Stato, comandati di servizio troppo spesso per essere in una piazza a fare da barricata tra chi, comunque, che piaccia o no, si esprime secondo le regole del gioco, pubblicamente accettato dalle istituzioni democratiche, e gli idioti incivili, figli di babbo architetto con l’Iphone in tasca e l’horror vacui nel cervello, cosa sono? Nulla, vero, dotti maestri, esegeti, philoshophi, intelligibili intellettuali, duchi del sapere?

Parlo a te, lettore. Parlo a te perché per quel poco che mi rimane da scrivere in libertà, vista l’aria pesante, torquemadesca, di castrazione del pensiero, vista la quasi impossibilità di dialogo democratico con coloro che praticano una visione alternativa alla mia. Poiché la democrazia, direbbe qualcuno, “è roba loro”. La democrazia è antifascista, o non è. Non esiste liberalità, non esiste apertura, intelligenza critica. La democrazia così come la generazione della cultura di massa, del sentire comune. Parti di un anacronistico ingranaggio che forma l’egemonia culturale imperante.

Allora parlo a te.

Se permane una misera brace di barlume in te, lettore, renditi conto. Renditi conto alle urne, renditi conto nella tua vita sociale, oltre la somma delle individualità. Ovunque tu sia, di qualsiasi credo tu sia, qualsiasi sia la suggestione che alimenta il tuo cuore e i tuoi occhi, poco importa: renditi conto. Torna a dare un nome alle cose. Sii libero di pensare, nonostante il coma profondo della democrazia liberale, che la violenza, fisica e verbale, l’onanismo culturale, l’inutilità antropologica, nella loro massima espressione, possano derivare indipendentemente da destra o da sinistra, o da ciò che ne rimane. Entra pure nel merito delle proposte politiche, del livello di democrazia di certe scelte. Sentiti libero di votare, sostenere, criticare, condannare chi tu ritieni più adeguato, o meno, a seconda dei casi. Distilla. Ma se la maggior parte della violenza, fisica e verbale, nelle sue forme più manifeste, pesanti, continuative, finanche sottili, l’impedimento, la censura, in questo momento ha un nome, quello è necessariamente uno: antifascismo. Ricordatelo.

Prevaricazione. L’antifascismo, così composto e predisposto, è oltraggio alla democrazia, tanto quanto ogni eccesso da estremismo. Una provocazione alla pace civile che, ogni giorno, stuzzica la rissa da bar. Che sia su un quotidiano, su una censura, su una castrazione, su una condanna. Non importa. Che sia dal certificato antifascista, nei Comuni, da firmare per ottenere l’autorizzazione ad esprimerti liberamente in piazza, alla diarrea linguistica dei Saviano, maestro della retorica capace di definire con convinzione – pare inutile richiamare ogni altro significato nascosto, l’intento del motto è chiaro – “Ministro della Malavita”, Salvini – che piaccia o no, ministro della Repubblica Italiana -, o di Zerocalcare che definisce i dirimpettai, tout court “nazisti” (e come dimenticare l’educatissima signora di cinquant’anni che si è staccata dal corteo a Bologna per andare a vomitare odio in faccia ai poliziotti, come la maestra di Torino, e poi tornare, tra i festeggiamenti, dai suoi sodali?), fino alla censura della cultura, non come necessario posizionamento ideologico contro la restaurazione di chissà quale regime, ma come castrazione, impedimento, come accaduto al Salone del libro di Torino con la casa editrice Altaforte, verso cui grandi figure ed eccellenze di questo Paese marcio hanno espresso solidarietà super partes, da Vittorio Sgarbi, a Piero Sansonetti, passando per Luca Telese e Giampiero Mughini, citandone solo alcuni, talmente è alto il senso di lesione della liberalità, la vitale libertà di espressione da garantire.

L’antifascismo teorico, che è sempre senza peccato da scagliare la prima pietra, a suo avviso; lo stesso che ricorda la santità del culto della Resistenza, ormai imposto come Credo laico sostitutivo, secondo cui è soltanto grazie alla Resistenza che, in Italia, si è liberi di esprimersi, ma è sempre nel suo nome, e dell’antifascismo che ha generato come sempiterna eredità, che si censura proprio la costituzionale possibilità di esprimersi liberamente. Parlando, scrivendo, financo facendo piroette nella vasca da bagno, se necessario.

Che rabbia.

Antifascismo teorico e pratico. Perché i cittadini italiani dovrebbero scegliere e legittimare QUESTO antifascismo, come modello di elevazione sociale e di purificazione da ogni male? Perché dovrebbero seguire questo non esempio? Allora siamo legittimati ad alzare le mani, quando riteniamo una situazione antidemocratica o ingiusta? Allora siamo legittimati a odiarci l’un, l’altro, e ad esprimerlo? Non mi rispondiate con una controaffermazione, “perché il fascismo è il male”, bensì con una positiva affermazione: “questo antifascismo, nel pieno delle sue facoltà, nella responsabilità dei suoi atti (schivando il senso della iperdemocrazia orteghiana che affligge le masse, come emancipazione priva di responsabilità verso la storia e verso il proprio tempo), è il modello salvifico per l’Italia perché…”

Chi persegue l’antifascismo come visione ideale della storia, come fondamento dell’evoluzione sociale, come eredità, in democrazia, ha diritto di farlo. E ad esso, qualora necessario, riservo l’onore delle armi, dell’ “avversario”. Ma se ha la coscienza pulita prenda le distanze, nel tessuto connettivo più prossimo e minuto, nel volgo bastardo, nel proletariato di ritorno, nelle case, nelle vie più lorde dell’Italia più profonda, nelle piazze, dalla violenza verbale e fisica di questa modalità di antifascismo.

Prenda le distanze, ora. La vera censura non è l’impedimento, ma la non legittimazione. Il silenzio. Il rifiuto.

Fatelo, amici, prendiate le distanze.

Poiché altrimenti ci legittimerete a pensare che l’assenza di sinistra genera antifascismo. La copertura di un buco. Trauma dell’abbandono di orfani. L’assenza di leader, l’aver calpestato le radici, i costrutti, le eredità storiche.

Ci legittimerete a pensare che l’assenza di un partito forte di riferimento, fa tornare tanta sinistra all’ultimo punto di ripristino utile. Che, però, proprio per questa sua natura, rimane pesantemente fuori tempo e fuori luogo. Antifascismo in assenza non di fascismo, ma anche e soprattutto di sinistra. Poiché è l’uso strumentale che si fa del termine che essa combatte, come abbiamo visto, con ogni mezzo. Uso in scatola, modernamente privo di senso, di ragioni storiche. Un uso insultante, meramente divisivo, illiberale, strillato. Scusa di violenza verbale e fisica, scusa e giustificazione di esistenza di troppi orfani del comunismo, del socialismo. A tal punto che è la sinistra, anche la più soft, che si aggrega, per dovere, per esistere e resistere, nell’antifascismo odierno, quasi costretta, e non è più il contrario naturale, ovvero la sinistra come movimento umano, politico e culturale ad aggregare l’antifascismo.

Così, allora, l’antifascismo genera fascismo, modernamente inteso, come copertura di un buco. Un modo, antistorico, fuori tempo e fuori luogo, di chiamare tutto ciò che non si condivide.

Ci legittimerete a pensare che si tratta di una nuova adolescenza. L’antifascismo moderno è una reazione nervosa, senza una lettura del reale, del presente. Illiberale. Violento. È un pretesto. Un “modo di chiamare” qualcosa che non esiste più o che è evoluto, ma non viene interpretato. È un movimento di rottura incapace di rappresentare la maturità democratica.

Se ancora esiste la democrazia è non è solo un simulacro, parlando con Galli…

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