Come i ristoratori di Genova che, nel mutismo generale, ieri hanno manifestato in un lunghissimo corteo cittadino di protesta contro il dilettantesco, l’indefinito, l’inesatto o come i proprietari di quegli impianti sciistici che, nonostante i divieti, hanno deciso di rimanere aperti, come in Val Vigezzo. A un certo punto, non si può più fare altro: chi è sveglio si salvi, chi è sano si ribelli – dove per sano non si intende chi non ha contratto o non ha il coronavirus, ma chi ancora vive sulla base di un pensiero critico, chi ancora possiede un barlume di integrità e di reattiva lucidità -. Suvvia, non possiamo essere figli di Balilla e Masaniello, di Cola di Rienzo e trovarci nipoti di Speranza e di Ricciardi. Qualcuno ancora attende Batman, figurarsi…

Ricciardi.

Ricciardi.

Ricciardi non è un modello filosofico, ma un esempio pratico. Poteva essere Speranza, Crisanti o altri, in tal senso, uomini secondo cui noi disturbiamo il virus, non viceversa.

Contro (le affermazioni di) Ricciardi perché non si imponga un modello che faccia tremare le fragili gambette italiane, nel Bel Paese con la sindrome di Stoccolma, in cui ci si innamora dei propri rapitori. Dunque, bisogna camminare oltre Ricciardi perché non si generi il Ricciardismo (o il Crisantesimo – forzando un po’ – ancor meglio, effettivamente, come fiori sulla tomba della dignità di un Paese defunto). Contro l’ossessione, l’esasperazione, la colpevolizzazione, l’eccezione, la diminuzione, il terrore mediatico come metodo di governo che non prevede un patto nazionale tra cittadini e Stato fondato sulla fiducia, ma sulla imposizione, spesso acritica.
Contro lo Stato di deficienza. Lo Stato di deficienza ha superato quello di eccezione: non ci potete chiedere di comprendere e accettare un lockdown totale in questa condizione, non più. È questione di modalità, non di ristori. Contro la pericolosa abitudine a essere ridotti in vacche stupide, in cittadini de iure e sudditi de facto. In onore di quella libertà verghiana, poco adatta a noi italiani, che si rende vana nell’individuazione e nella personificazione di un odio momentaneo da eliminare con ogni forza, al quale ne segue un altro, e poi un altro e un altro ancora, in un eterno loop, eterno riposo, ma che si mostra, contrariamente, nell’abbattimento del patimento e delle sue radici, nel non permettere a una tendenza umiliante di manifestarsi nel tempo e con forza. I popoli proseguono la storia e devono riconfermare la propria maturità. Le grandi battaglie non bastano.

Potevano non ammazzare i notabili a colpi d’ascia, i popolani del verista, ma dovevano impedire eccessi d’ingiustizia a tempo debito. Senza il giusto impiego, anche la libertà può essere insidiosa. Il pericolo, di per sé, non è Walter Ricciardi ma la pigrizia, il vizio antico, il tappeto di buonismo e ingegneria sociale, gli uomini folla che venderebbero anche la madre pur di veder garantita la propria gratificazione istantanea, acefala, continuativa, gente che ha rinunciato a un pensiero critico, segnaposto virtuali, replicanti incapaci di reagire o di generare un dubbio, e sono i dubbi che costruiscono le certezze più durature. Tutto ciò che ha contribuito a impastare, nel tempo e da diverse direzioni, il ruolo di Ricciardi o, quantomeno, gli ha permesso di utilizzare quei modi e a generare i prodromi di un pericoloso Ricciardismo.

Di carciofini sott’odio, direbbe Longanesi, che frignano libertà dall’imposto, altrimenti, non ce ne facciamo nulla.

Il Ricciardismo. No, tutto non è ora, nonostante si viva compressi in compromessi, tra le pareti tonde e finissime del puntillistico, ricorderebbe Bauman, nella dittatura dell’attimo in cui prosperano i tecnici e i dilettanti senza visione, nel regime dell’immagine-verità, a cui non occorre mediazione, né ragionamento, poiché è visibile e manifesta, quindi assolutamente vera, nel regime del “titolo senza articolo”, in quella dimensione in cui l’identità, la necessità, la rabbia vengono plasmate dall’alba al tramonto, poi si spengono e ripartono. Estrema velocità di fuga e decomposizione. No, tutto non è nel punto. Tutto non è ora. La storia non non è un punto.

Dunque, oltre Ricciardi, contro il Ricciardismo. Perché non prosperi la modalità attuale, perché non sia abitudine, perché non sia rassicurante sogno bagnato di chi ha mandato il cerebro in pensione.

Contro lo Stato di deficienza, appunto. Di mancanza, di stupidità.

Sono qui a scriverlo perché mi sento deficiente, ma forse lo sono di mio credendo che questi pensieri servano a qualcosa. Azzoppato, impossibilitato, annientato. Noi, atomizzati. Isolati, con estrema pace di John Donne, la cui grazia poetica suona come le urla di una violenza in un vicolo: “ Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto”.

Rinchiusi nel puntino concesso e arredato di miseria, caduta in disgrazia di chiunque: qui non si salva più nessuno, le tasche e la mente. Puntillistico, nell’identità d’emergenza, limitatissima, che si crea all’alba e muore al tramonto, in un punto del tempo e tanti piccoli punti che ogni giorno i media, i virologi e il governo apre e chiude. Ed entro cui siamo stati infilati a forza, grassi, magri, ambiziosi, appassionati, espansi o ristretti, in estasi e sulla cresta di una vita che, finalmente, cresceva, finalmente ti dava quello per cui avevi studiato o lottato per anni e che, ora, ti ritrovi tra le mani come un pène secco al momento di portarlo a urinare.

Non sappiamo cosa farcene di una vita così. In tempo di guerra prospera la poesia, si genera l’arte, che è riflessione sulla vita accesa e sulla vita spenta, non solo le risposte tecniche a dubbi tecnici.

In tempo di guerra strillano i soldati che poi eseguono il loro compito, certamente, ma in quanto uomini, ancora, seppur certe volte più simili alle foglie ungarettiane, si disperano.

E invece voglio lasciare solo due riflessioni: chi è sveglio si salvi, chi è lucido reagisca, chi è sano si ribelli, affinché si blocchi il processo di Ricciardismo (nel tempo) e non tanto, o non solo Ricciardi (punto momentaneo). Non c’è altro da fare. Si comincia a sentire il peso specifico dell’impotenza, ora per davvero. Dell’insulto, dell’offesa, si comincia a sentire cadere le ultime, appena accennate, certezze. Si sentono esaurire le riserve. E monta la paura dell’ignoto, non quello sociale. Quello interiore, quel buio privato che diventa abisso e che più lo fissi, più esso fisserà te, disse qualcuno.

Contro lo stato di deficienza.

Stanchezza. Stanchezza di essere trattato come una stupida vacca da spostare a destra o a sinistra quando minaccia il temporale. Dentro la stalla, fuori dalla stalla. Cagano anche, Ricciardi o Crisanti o chi per loro, le vacche cagano. Defecano. Defecano vita quel che ormai viene considerata merda.

Al nuovo governo dico, dopo un anno di rispetto delle regole, mai acritico, ma lucido e ossequioso di chiunque altro intorno a me: se chiuderete tutto, mi troverete per strada. In mezzo alla strada. A fare l’inutile vivo impazzito, meglio di un utilissimo replicante coglione.

Nessuno si salva da solo. È ora, forse, di cominciare a concepire che dopo il reddito di cittadinanza dovrebbe esistere la dignità di cittadinanza e quella, ahimé, non è garantita dallo Stato. E quindi, occorre rendere carne l’immagine secondo cui anche la nostra generazione, come per ogni altra, deve assumersi il peso delle proprie responsabilità agli occhi della storia, almeno la propria porzione.

Intanto, dopo qualche fugace riflessione, qualche breve domanda.

Esattamente dov’è il piano vaccinale?
Da mesi non si può uscire di casa dopo le 22.00. Dove sono le statistiche, i numeri, che attestano che tutto questo sia servito a qualche cazzo di qualcosa?

Chiudete la finestra di Overton. Si crepa.

Dal freddo.

(foto ilmessaggero.it)
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