Andrà tutto bene, all’inferno, ragazzo. Là andrà tutto bene. Avrai tempo, là, di fondere la tua PlayStation.
Come va nel tuo inferno?
Quanto hai fissato il monitor, oggi?
Quanto ti annoia vivere così?
Sai che tutti ti accuseranno di essere sciocco, dimenticando, forse, di quando lo furono loro?
Tu non conti nulla, piccolo mio, non sei che una stitica statistica.
Sei una giustificazione al delirio.
Ogni giorno del tuo silenzio, riduce il tuo peso. Rischi di crepare ancor prima di nascere, rischi di diventare l’anima che infesta le stanze della tua casa. Passando da qui a lì. E da lì a qui. E qui, e lì.
Cosa ti manca, ragazza?
Non ti manca niente?
Non ti viene voglia di spaccare tutto? Di lasciarti al vuoto che ti riempie?
Non senti che hai sempre meno voglia di parlare? Quanto pensi possa pesare l’inutilità? Essa vale un pianto di sei ore?
Potrei scriverti di tuoi simili che, messi di fronte al muro della fine della propria libertà, si sono dati fuoco, si sono sono ammazzati, hanno raccolto le budella, con un ultimo attimo di vita, sul Carso, mentre strillavano come gattini appena nati “Mamma!” tra fiondate di pallottole, a seicento chilometri da casa; potrei scriverti di quanti tuoi simili si sono fatti la galera, hanno preso le botte per strada, da un altro loro simile che aveva fatto una scelta diversa, in un momento in cui non tutti erano reclusi, umiliati e disperati. Avevano gli occhi aperti.
Potrei citarti fonti e morti, ma non faremo la fine inutile dei morti di fonti. Arriverà il momento di aggregare conoscenza sugli esempi, oggi devi reagire e non lo devi fare per loro: lo devi fare per te. Devi a te la tua autostima, devi a te l’esistenza dei sogni, devi a te la gioia sconfinata, devi a te l’amore, devi a te una coltivazione, devi a te i dubbi e la ricerca delle soluzioni per correggerli, devi ricordare a te stesso che la vita, anche la tua, non è un crimine. Potrei citarti libri che non leggerai ora e, per cui, non hai alcun interesse. A me basterebbe che tu potessi acquisire consapevolezza della tua attuale condizione, consapevolezza del ruolo e dell’importanza che la tua vita, il tuo studio, la tua serenità hanno per questo Stato (delle cose).
Pensaci e rispondimi: stai bene? Ti senti bene? Qual è il tuo ruolo, ora, secondo te? Pensi di essere importante?
Potrei romperti le palle con la potenza della vita, e invece voglio romperteli lo stesso ma con la vicinanza della morte, della fine, del sacrificio, atti di cui, prima o poi, dovrai renderti conto. Oggi si muore forte, ragazzo. Di coronavirus, certo, ma soprattutto stando fermi. Oggi si muore stando fermi a vedersi decomporre. Perciò voglio solo chiederti, in realtà, se senti la puzza di morto che esce da te. Se non ti senti inutile, se non ti senti umiliato. Ti hanno dato dell’untore, ti hanno reso colpevole, hanno caricato le tue spalle ancora fragili di pesi che non ti spettavano, hanno provato a trasformarti in un mostro capriccioso e viziato solo perché vuoi vivere i tempi del tuo tempo. Hanno fatto di te come farebbero con una sgradita foto vecchia che si fissa un’ultima volta, giusto il tempo di capire che non serve più e va buttata senza troppi rimorsi di coscienza, senza accusare troppe responsabilità. Ti hanno buttato nell’umido, insieme alla merda dei gatti e agli avanzi del pranzo degli statali. Nonostante non vi sia certezza che questo trattamento sia scientificamente giusto, non ha certezze accademiche ferree, dopo un anno, ti hanno costretto a non andare a scuola, a non vedere i tuoi amici, hanno violentato la tua privatezza con la privazione. Ti hanno tolto il sonno e la cultura, ma, soprattutto, delittuoso, ti hanno tolto la voglia, la passione, la curiosità.
Rispetta le regole di tutela della salute pubblica, quelle uniche tre regole fondamentali valevoli, ancora. Ma non farti schiacciare. Sii rispettoso del tuo tempo ma non fartelo annullare.
Insomma, vorrei capire se ti senti morto. Potrei e vorrei incoraggiarti, ma preferisco richiamarti all’attenzione: ciò che non capisci, non significa non esista. Se non cogli i danni che questo momento ti arreca, non basteranno cento anni di gratificazione istantanea su Tik Tok. Sarai fritto perché avrai perso la connessione con te stesso e con quelle rare possibilità che hai di salvarti in un mercato umano e del lavoro come quello odierno.
Ricorda, ragazzo, che hai solo un tempo. Il tuo tempo. Mi risponderai, forse arrossendo, “e io che ci posso fare?”, o magari, “tu hai ragione ma io non posso cambiare niente!”. E invece puoi, smettendo di concederti. Non ti concedere. Non farti trovare, quando vogliono farti credere che vita sia quella cosa che si realizza in quel lasso di tempo che intercorre tra l’arrivo del corriere di Amazon e l’inizio della seconda puntata della serie. Non farti trovare, quando ti convincono che il coprifuoco sia utile a salvare la tua vita. Non farti trovare, ora che ti stanno consegnando una società senza lavoro, senza istruzione, senza uomini, piena di debiti e disperazione, di macerie, in cui un figlio potrai solo sognartelo, in cui gioirai sapendo che per nove ore di lavoro al giorno, senza tutele, né garanzie, in nero, ti lanceranno addosso da un Bmw 400 euro al mese. Portafoglio vuoto, portfolio pieno. Sciopera dalla fine, ragazzo.
Rompi.
Non sei solo, non pagherai solo te. Riprenditi il tuo spazio che è forma del tuo tempo. Riprenditi il tuo tempo perché, e lo capirai a tue spese, la gioventù non tornerà, quella sregolatezza, quella lucida follia, quella voglia di sesso, quelle ore infinite con l’orecchio alla cassa dritta, senza responsabilità come sentenze di esecuzione, quella disillusione, quella dolcezza di chi si fida dei più grandi, quella voglia di vivere, appunto, che da te emana come un profumo d’alloro, non torneranno. Tua madre e tuo padre, giovani anche loro, non torneranno, se non in una foto incollata nel marmo rosa e tu a fissarli, ancora vicini, mentre un cipresso si piega alla tramontana, ripenserai a quando avevi tempo.
Una società con una gioventù che non esplode a un simile sopruso, a una simile violenza psicologica, è fallita come classe di uomini. Uomini che assurgono a replicanti di un volere imposto, sterilizzati, incapaci di reagire. Anestetizzati, surgelati.
Pensi che tutto ciò che stai vivendo non avrà effetto su di te? Sulle tue acerbe certezze, sulle tue paure, sulla tua ansia, sulla tua asfissia? L’ossigeno si corrompe ad alta quota. Alla quota in cui ti hanno portato per poi lasciarti cadere giù. Ma non provi senso di schifo, non ti viene voglia di rigettare il terrorismo mediatico? Non ti viene voglia di vomitare sulla jpeg di chi ti sta trattando come un figlio scemo, inutile e inutilizzabile, convinto che sbattendoti agli arresti domiciliari con la trap nelle orecchie, davanti a uno schermo, tutto il giorno, a fare il segnaposto virtuale, faccia il tuo bene? Qual è il tuo bene, secondo te? Qual è il bene, ora, secondo te? Ma soprattutto qual è il male, ora, ragazzo? Cos’è male, ragazza?
Ribalta la Cultura della debolezza: vai a cercare la paura per dominarla, la fatica per trionfare, la difficoltà per vincerla. Parla delle tue paure, di cosa ti angoscia, ora, e ti toglie il fiato. Non mollare. Non è questo il tempo per crepare.
Scusami, ma non riesco a fare più di questo. Anche io, impotente e atrofizzato, non riesco a difenderti, a sostenerti.
Ti voglio bene, fratellino. Ti voglio bene, sorellina.
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(foto tratta da agi.it)
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